Raccontare di Pirandello, in occasione delle prossime celebrazioni per gli 80 anni della morte (che celebreremo con convegni e pubblicazioni) significa vivere la strategia dell’attrazione della maschera. La recita e il doppio. Lo specchio e il teatro. La follia e la parola.
Ma la magia della parola ha bisogno, niccianamente, della profondità della maschera. Infatti in Luigi Pirandello, nato a Girgenti (oggi Agrigento) nel 1867 e morto a Roma nel 1936, la follia ha avuto sempre, sin dai suoi primi scritti, e quindi dalle sue poesie dal titolo Mal giocondo, una visione ironica in cui la rappresentatività ha giocato intorno a due elementi: la finzione e la maschera oltre qualsiasi forma di verità.
La letteratura è follia altrimenti è leggerezza. Pirandello è oltre il macabro della ideologia della leggerezza che è visuale del relativo. La leggerezza è relativismo perché non conosce il tragico dell’orizzonte di senso. Manlio Sgalambro ci ha insegnato la decodificazione del mondo pessimo in un tempo di debolezze. Pirandello strappa la leggerezza e ci scava come anime perse nei deserti dello specchio.
La follia di Pirandello va considerata in termini letterari come la negazione della realtà che diventa in molte occasioni la non verità perché ciò che conta non è ciò che si è ma ciò che si rappresenta o ciò che si vorrebbe essere. Giocondo è la maschera nel Pirandello del desiderio della attrazione del tragico della discesa agli inferi come sostiene Maria Zambrano scrivendo, appunto, di Pirandello. Zambrano è una interprete originale del Pirandello della maschera.
È naturale che Pirandello resta un narratore puro anche nelle sue opere teatrali e non c’è nei suoi scritti nessun indagine di tipo psicoanalitico come è stato dimostrato anche da Vittorino Andreoli in suo testo dal titolo Il matto di carta. La follia nella letteratura (Rizzoli, 2008). Insiste in Pirandello la teatralità della letteratura grazie alla centralità dei personaggi.
L’incontro scontro tra la finzione e la verità sta proprio nel mettere in scena l’ironia della follia come, un testo di attrazione fondamentale nel rapporto – legame follia – letteratura, nell’ Enrico IV scritto nel 1921 e rappresentato per la prima volta dalla compagnia di Iugero Ruggeri il 24 febbraio 1922 al Teatro Manzoni di Milano.
Che cosa si rappresenta? Nel corso di una cavalcata di personaggi tutti in costume un personaggi di questi cade da cavallo, sbatte la testa e impazzisce. Per anni si crede di essere Enrico IV ovvero l’imperatore Enrico IV. (Un esempio che è solo una testimonianza, quella di Enrico, che va oltre l’oltre).
Ma nello stesso tempo continua a fingersi pazzo anche quando si sveglia e decide di restare pazzo perché si rende conto della invivibilità della vita da una parte e dall’altra ha la consapevolezza che tornare nella verità e quindi nella realtà è prendere coscienza di una società che storicamente non condivide e resta il personaggio in maschera dell’Enrico IV e si comporta come pazzo pur non essendolo.
Nei comportamenti delle persone cosiddette normali subentra il fatto di avere davanti un pazzo che pazzo non è e il gioco diventa ironico ma nello stesso tempo il finto pazzo incastra tutti gli altri personaggi in un inevitabile incrocio di verità e finzioni. Dove sta la verità e in che cosa consiste e qual è la finzione che viene considerata follia?
C’è un dialogo tra Enrico IV e Bertoldo nel quale emerge questo spaccato. Rivolgendosi a Bertoldo Enrico IV sottolinea: “Tu non ridi? Sei ancora offeso? Ma no! Non dicevo mica a te, sai? – Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare. Che dico io di quelli là che se ne sono andati’ Che una è una baldracca, l’altro un sudicio libertino, l’altro un impostore…Non è vero! Nessuno può crederlo! – Ma tutti stanno ad ascoltare, spaventati. Ecco, vorrei sapere perché, se non è vero. – Non si può mica credere a quel che dicono i pazzi! – Eppure, si stanno ad ascoltare così, con gli occhi sbarrati dallo spavento. – Perché? – Dimmi, dimmi tu, perché? Sono calmo, vedi?”.
Bertoldo ha la capacità soltanto di dire : “Ma perché…forse, credono che…”.
Ed Enrico IV con lo sguardo fisso dice: “No, caro…no, caro…Guardami bene negli occhi…- Non dico che si vero, stai tranquillo!– Niente è vero! – Ma guardami negli occhi!”.
Bertoldo domanda: “Si, ecco, ebbene?”.
Risponde Enrico IV: “Ma lo vedi? Lo vedi? Tu stesso! Lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi!-Perché ti sto sembrando pazzo! Ecco la prova! Ecco la prova!”. Interviene Landolfo chiedendo : “Ma che prova?”.
Risponde Enrico IV: “…vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – è vero o no?”.
Si consuma così un intreccio tra il personaggio di Enrico IV che mostra la sua ambiguità ironica facendosi credere pazzo ma osservando e tenendo sotto controllo tutto ciò che è la verità degli altri. Come si conclude?
Con un vero gesto di follia perché il personaggio di Enrico IV, innamoratosi di Matilde di Canossa, ovvero la maschera di Matilde di Canossa, già da tempi antichi, ha l’opportunità di confrontarsi con il suo rivale ovvero con l’uomo che ha sposato Matilde di Canossa e in un gesto improvviso, ma forse ragionato, lo uccide.
Ma quest’atto diventa una vera e propria condanna, ovvero entra nella convenzione, adesso comoda, della pazzia e così il Pirandello della maschera mostra il vero conflitto tra una realtà interna che è quella letteraria e una realtà esterna rappresentata dai personaggi.
La pazzia di Enrico IV allora non viene vissuta come una malattia involontaria, come nel caso della “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo, ma alla fine si conclude con un inevitabile approdo in una dimensione che diventa la circostanza del vivibile.
La pazzia come malattia iniziale, ovvero la caduta da cavallo, la finzione della follia , la vendetta, perché di vendetta si tratta nei confronti del rivale e l’indefinibile atto, la chiusa che lo condanna alla pazzia come scelta per non affrontare la realtà che è quella della non pazzia ma del dramma.
Questo il percorso fondamentale di questa tragedia nella quale c’è uno sviluppo chiaramente letterario ma la letteratura uscendo dallo specchi e quindi dal riflesso dalla realtà provata si serve inevitabilmente della maschera.
Enrico resta fino in fondo non uno specchio, ma una perpetua maschera che vive nel proprio di dentro l’incastro del doppio tra il gioco e la perenne follia. Un gioco alchemico che ha gli abissi del vizio assurdo e l’assurdità dell’onirico nella griglia degli archetipi che accompagnano la vita e la parola. Pirandello è la grecità del tragico e tocca il vento dell’ironia. Pirandello, e sono convinto con la sottolineatura di Maria Zambrano, resta, forse, l’unica tragedia della letteratura contemporanea che ha saputo giocare sulla scacchiera dell’ironia.