Un uomo, marito e padre di famiglia è morto mentre era al lavoro, investito da un getto di ghisa incandescente; quando ancora non erano accertate le cause della tragedia, i magistrati hanno disposto il sequestro dell’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, seguito da un decreto governativo che ne consentiva il prosieguo dell’attività.
Un altro uomo, marito e padre di famiglia è morto mentre era al lavoro, schiantato dal caldo e dalla fatica mentre raccoglieva pomodori. Non ci risultano – aldilà delle prevedibili dichiarazioni di politici e amministratori – provvedimenti di sequestro dei campi pugliesi coltivati a pomodoro o decretazioni d’urgenza che sdoganino l’utilizzo della salsa negli impieghi culinari. Esistono morti di serie A e morti di serie B? Con buona pace della livella di Totò, pare proprio di si. Non c’è una vittima meno importante di altre, o forse è meglio dire che non ci dovrebbe essere, eppure così è. Se l’incidente all’Ilva non ha ancora cause e responsabili acclarati, la morte di Mohamed e dei tanti altri nostri schiavi li ha, eccome. Sono li, sotto i nostri occhi, facilmente individuabili la mattina all’alba quando partono e fino al tramonto nei campi coltivati a pomodori, a uva ad angurie; è la sete di profitto dei caporali che li sfruttano, è la ipocrita voglia di risparmiare qualche spicciolo di tutti noi che facciamo la spesa, è la complice cecità di chi dovrebbe vigilare e sanzionare e non lo fa.
Facile citare la banalità del male di Anna Arendt, facile e auto assolutorio, perché ci qualifica inconsciamente come puri osservatori delle obiezioni/abiezioni altrui; più difficile ammettere che siamo tutti – chi più e chi meno – soggetti ad una sorta di mitridatizzazione morale chi ci ha assuefatto a scene e fenomeni che dovrebbero invece disgustarci. Oramai la nostra soglia di indignazione è sempre più elevata: strade lordate da escrementi, edifici fatiscenti che diventano discariche di rifiuti, traffico veicolare impazzito, piccoli e grandi soprusi dove si afferma la legge del più forte e del più furbo, tutto accettato facendo spallucce, con un amaro “Che vuoi farci, anche se ti arrabbi non risolvi niente”, come se a volere tutto ciò fosse in onnipotente divinità e non il nostro pavido menefreghismo.
Facile, troppo facile, lamentarci della mancanza di controlli, della scarsa vigilanza, delle sanzioni insufficienti; sono certamente un fattore su cui intervenire ma non è la causa prima. La causa, la vera e prima causa siamo noi, perché il vero cambiamento non può che partire da ciascuno di noi, nel volere una città migliore, nel pretenderlo da chi ha il dovere di costruirla, nell’unirci a chi può aiutarci ad ottenerla, nel non tollerare più chi – con fatti e omissioni – ci allontana anche solo di un giorno da questo traguardo.