“Io vissi di tramonti nel cuore delle sere/ in attesa del giorno nuovo/ lungo le vie dei deserti e dei mari” (Manuz Zarateo). Il Mediterraneo delle statue e del racconto affidato ai musei. Il Mediterraneo delle parole e dei linguaggi. Il Mediterraneo degli incontri imprevedibili tra Ulisse, Cristo e Maometto. Il Mediterraneo ancora degli Orienti (i più Orienti che abbiano nella nostra storia e nelle nostre memorie) e dell’Occidente. Ma in un Mediterraneo che ha un cruore cristiano, musulmano, berbero, ebraico, armeno (intrecciamo religioni e civiltà), greco e Magno – greco la letteratura diventa il meridiano dell’attesa.
Occorre precisare alcuni dettagli che riguardano il tema in questione. In un tempo in cui il Mediterraneo non è soltanto una geografia o un “modello” geopolitico l’antropologia delle etnie assume una concordanza con quelle eredità che hanno attraversato la civiltà pre Magno Greca sino a tutto il contesto Romano. È proprio nello spaccato tra le identità greche, neogreche e latine che le etnie del Mediterraneo assumano una valenza sia politica sia prettamente antropologica sia metafisica.
Finora abbiamo trattato la questione relativa al rapporto etnie e Mediterraneo come se fosse una dimensione meramente territoriale. In un tempo di vissute incompiutezze esistenziali il Mediterraneo resta un destino, come volle definirlo Braudel, ma anche una sostanziale filosofia della conoscenza dei saperi.
I veri saperi del Mediterraneo nascono dalla definizione di un processo etnico che significa la forza di una archeologia dei saperi dei popoli e delle loro identità. In fondo questo Mediterraneo oggi resta senza una precisa identità. Anzi senza una appartenenza perché se vogliamo dirla in termini di saggezza delle conoscenze le identità ci sono ma sono una dichiarazione di confusione e di reali conflitti anche di ordine economico oltre che religioso etico e culturale tout court. I beni culturali, come patrimonio nazionale, sono una testimonianza nel vissuto della storia e dei popoli, che devono trovare le ragioni per un dialogo a tutto tondo con le risorse e le vocazioni che vivono dentro il territorio. Dobbiamo cominciare ad entrare nell’ottica che il bene culturale non è soltanto una questione materiale. L’immaterialità diventa una metafisica delle civiltà.
Non solo il pensiero meridiano disegnato da Albert Camus, ma anche quell’orizzonte degli abbracci tra il mare, metafora del tutto, e il deserto (metafora del comunque sempre), ovvero dell’acqua e della terra. La Bibbia ci recita la durezza dello sguardo dei padri del deserto con la dolcezza delle parole e così ci porta, altresì, lungo il cantico che Salomone ha raccolto come i cantici dell’ebbrezza tra le colombe e i danzatori dervisci.
La cultura è nella immaterialità: dalle lingue alle etnie, dalla musica alla canzone d’autore, dalla presenza delle minoranze linguistiche in Italia (sulle quali stiamo portando avanti studi, ricerche, pubblicazioni e modelli valorizzanti riconosciuti da tutto il mondo con una presenza in molti Paesi esteri e la documentazione è abbastanza evidente) alle antropologie comparate.
Il territorio come bene culturale è un intreccio di beni materiali e immateriali. Oggi parlare di territorio, di patrimonio culturale, di storia significa anche non dimenticare il senso e l’appartenenza di una memoria che vive nei simboli. E i simboli si trasmettono, si contestualizzano, si interpretano. Hanno un loro valore. Penso ai castelli, alle aree archeologiche, ai musei. Se i beni culturali sono identità, la etno – archeologia è una testimonianza straordinaria in questo discorso, e se tali vengono da noi considerati abbiamo il dovere di aprire un vasto dibattito sul loro ruolo all’interno dei territori. Nel depositato della storia ci sono modelli di civiltà e percorsi di epoca che intrecciano segni di identità.
C’è un dato dal quale bisogna partire. Il Sud ha una ricchezza non indotta. Una ricchezza che è sempre più risorse vocazionale. Ecco perché insisto nel discutere di bene culturale e valorizzazione dei territori. Non avrebbero senso i beni culturali senza una vera valorizzazione soprattutto nel Sud. Questi beni sono i simboli di una identità comunitaria oltre ad essere stati riferimenti e contenitori di un processo storico all’interno di un territorio. La letteratura diventa sempre più una chiave di lettura fondamentale. Soprattutto la poesia.
C’è una poesia nella grecità soffusa delle voci e delle etnie nel viaggio di una Magna Grecia archeologica che ha un immaginario turco, islamico, berbero come i cavalli del deserto che si dirigono verso le acque dei fiumi o le distese dei mari. C’è una letteratura che non ha inteso mai confrontarsi con la ragione, divieto manifesta di una poetica dello sguardo e del mistero. Il “Capitano Ulisse” di Alberto Savinio ci indirizza verso le isole dell’impossibile che diventano decifrabili ma indefinibili se manca l’amplesso tra Odisseo e Circe. Il canto di Circe nel mare che si spiega nel mito. La favola bella nul cuore dell’isola.
Un Mediterraneo, dunque, non delle fate ma delle streghe. “Da Lipari ad Alicudi/piano piano si fredda/il mare/ch’è un immenso bacile d’olio grigio”: una geografia degli incisi nella parola delle metafore percettibili ma mai descrivibili con Adonis che al mediterraneo ha dato il senso dei linguaggi. Ma il Mediterraneo è l’immenso mare degli Adriatici, dei Tirreni, dei paesaggi sullo Jonio, dello suardo intenso di Cleopatra e dei fili intrecciati nella Mesopotamia dei segni.
Odisseo cammina tra le grotte della finzione per condurci non chissà dove ma per portarci mano nel vento lungo la comprensione di ciò che il Mediterraneo è stato. Quello che è stato non è. Non possiamo vivere il Mediterraneo dei nostri giorni pensando soltanto ad Omero. Perché, come recita Odisseo Elitis, il ricordo è libertà. “La grecia che con passo sicuro entra nel mare/ La Grecia che sempre mi reca in viaggio/Su monti nudi gloriosi di neve”.
Elitis ci recita il canto delle “tessitrici del sole”. Una mediterranea grecità e Adonis con me intaglia i suoi versi dalla fisicità greca a quella dei “mercanti di pietra” che hanno la simbologia segnata negli occhi. Questo è Mediterraneo. Ed è il Mediterraneo di Costantino Kavafis che ci fa rivivere l’incanto e il disincanto dei Troiani: “Sono gli sforzi di noi sventurati,/sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani. (…)/Dei nostri giorni piangono memorie, sentimenti./Pianto amaro di Priamo e d’Ecuba su noi”. Un viaggiare nella grecità del Mediterraneo senza perdere l’essenza dello sguardo di Ritsos o di Hikmet sino a toccare la lirica sufi e il mare che ad Ulisse sempre ci conduce.
Perchè alla fine tutto ci conduce ad Ulisse? Giorgio Seferis nelle nostalgie che cerchiamo e attutiamo ci sfida: “Il mare: e come è divenuto questo il mare?/Anni indugiai sui monti,/accecato da Lucciole./Ora su questo litorale aspetto/che attracchi un uomo/un relitto, una zattera”. Sino all’Ulisse di Pascoli e a quella figura di Penelope o a Pavese che raccoglie nel mito di Calipso il cammino dell’immortalità. Cosa accetti Odisseo? La vita che è l’amore o l’immortalità? La Calipso di Pavese nel cuore del Mediterraneo di Leucò. E Pascoli nei suoi “Poemi Conviviali” (l’unici testo che di Pascoli oggi resta): “E gli dicea la veneranda moglie:/’Divo Odisseo, mi sembra oggi quel giorno/che ti rividi. Io ti sedea di contro,/qui, nel mio seggio. Stanco eri di mare,/eri, divo Odisseo, sazio di sangue!/Come ora. Muto io ti vedeva al lume/del focolare, fissi gli occhi in giù”.
Questo è il Mediterraneo che abbiamo sempre accolto nel nostro pellegrinaggio di voci e di destini. Un pellegrinaggio metafisico che raccoglie, tra l’altro, sia le istanze di Omero, di Virgilio ma soprattutto di San Paolo. Ma la poesia non ha mai confini e non si lascia aggredire dagli orizzonti spersi tra le nuvole. La poesia ci tocca e toccandoci ci penetra. Penetrare. La poesia è un lento penetrare. Il Mediterraneo non può essere capito se si escludono le parole, le immagini, gli sguardi. E l’amore è nella intensità delle perdute nostalgie.
Il Mediterraneo greco ha la danza delle odalische o delle zingare (come ci canta Franco Battiato) o dei dervisci tra i camini delle fate della Cappadocia. Ma l’amore è l’immenso travolgente luogo dell’esistere che gioca tra immagini di ricordi e segni di memoria nel tempo dei viaggi che non si raccontano come destini nel suo sottosuolo dell’anima che intriga il fremito dei corpi con la stregoneria che il mare, la donna,il viaggio si portano dentro.
Ed è un Mediterraneo stregato o stregone che raccoglie l’orizzonte e le linee della cristianità con le eresie di Nazhim Abashu, poeta musulmano convertitosi al cristianesimo, che incentra la danza delle sue parole sul senso della croce e poi sprigiona sulla “talassia” del vento le erosioni e il terribile eros: “Se non ci fosse il vento delle maree mediterranee/io sarei rimasto a custodire la sabbia di Tunisi/ma tu, amante mia, porti negli occhi le banderuole de naufragi e della salvezza”.
Cosa è questo Mediterraneo della parola. La parola è sempre un fluttuare di acque nell’anima che è destino di civiltà. “L’Egeo s’è rizzato e mi guarda/-Sei tu? Mi chiede./-Sì, gli rispondo, sono io/insieme ad un altro,/non lo conosci?/ma quest’altro/sei tu!/L’Egeo s’è coricato/il Sole ha tossito/son rimasto solo/del tutto solo”. Mikes Theodorakis in questi suoi versi il gioco delle geografie è sempre più un incastro. Ma è una canzone libera in cui la grecità è nello scavo dei luoghi e del luogo che si porta dentro come una paese del fascino intoccabile.
Chi può mettere una mano su questo mistero? Il mistero è intoccabile e forse è invisibile se non attraverso le emozioni della percezione. Il Mediterraneo delle parole o anche delle etnie che si incontrano nei linguaggi. Ma cosa ci permette di comunicare e di attraversare questa comunicazione? La poesia. Impercettibile come le conchiglie, le foglie, le stelle di Odisseo Elitis. Ma le parole possono essere affidate alla musealizzazione?
Il Mediterraneo che troviamo nei Musei, le statue del Mediterraneo, le archeologie del Mediterraneo, le maschere, i vasi, i frammenti sono la memoria scavata che ritorna a farsi sentire e ci chiede di essere ascoltata. Il Mediterraneo delle parole è il “Mediterraneo dei silenzi mai definiti nelle voci” ci dice Abshu e questo Mediterraneo non ha neppure bisogno di memorie perché in ogni parola la dimensione delle immagini non ha stratigrafie di terreni ma palpiti, sensazioni, percezioni.
Il Mediterraneo della poesia è altro dal Mediterraneo dei musei. Le parole non hanno fisicità e non sono oggetto. “Non toccarmi l’anima/tu donna dei Mediterranei perduti/ho già camminato sulla sabbia del tuo deserto/e non ho sguardi da consegnarti/il rumore che ascolti non ha tempo/il suono della cetra ha l’odore dell’incenso/e le stanze che abiti sono paesi di infinito/il Mediterraneo lo porti con te”.
È Nazhim Abshu nel teatro dei Mediterranei che includono ad definirsi tra le parole intoccabili, inafferrabili, leggere come il vento che soffia nel fluttuare delle maree. In questo fluttuare le parole inafferrabili sono le parole del mistero avvolgente: da Kavafis a Savinio, da Camus a De Chirico, da Elitis a Pascoli, da Pavese a Seferis, da Teodorakis ad Abshu. “Ascolta. Il vento soffia su ogni brughiera/Le parole sono echi e le voci sono parlate./Cadono i colori sulle mani dei popoli/e le civiltà raccontano” (Manuz Zarateo).
Bisogna fare in modo di recuperare il Mediterraneo delle etnie nelle letterature. Questo è il punto, perché le etnie storiche hanno un senso nello sviluppo che i popoli hanno dichiarato lungo i secoli. Secoli che sono state e sono epoche.
Il Mediterraneo è fatto di epoche e parla attraverso le epoche , ma le epoche sono una espressione di interpretazioni e di letture puramente etniche. Da questo punto di vista la chiave di lettura antropologica resta, nonostante le crisi religiose e ideologiche, il dato centrale per entrare tra le onde dei marti vissuto e decifrare una storia che, comunque, è sempre la nostra storia.
Senza una valenza antropologica neppure la storia avrà senso.