Non credo che a 70 anni dalla fine della guerra si possa parlare di un 25 apre condiviso. Io non condivido la retorica della Liberazione.
Lo dico con le parole della letteratura. L’ho già scritto con Pavese, Berto, Mazzantini… Il partigiano … Johnny, il partigiano. Quello di Beppe Fenoglio. Un partigiano sui generis? Ma no. E’ un partigiano non “rosso” che si autoracconta. Fenoglio è un bravo scrittore. Uno scrittore che ha intrecciato storie e avventure della guerra di Resistenza fuori dal coro conformista di una certa letteratura, che ha usato il metro ideologico invece di quello puramente letterario per raccontare. Un bravo scrittore che si testimonia senza mai autocelebrarsi. Lo ha dimostrato nei suoi romanzi precedenti a cominciare dai Ventitré giorni della città di Alba del 1952. Ma il problema non sta in ciò. Il problema vero consiste nel come si legge un romanzo o come lo si interpreta.
Perché si parla di Fenoglio e del partigiano in questione proprio ora? Ovvero de Il partigiano Johnny? Perché di questo romanzo di Fenoglio Guido Chiesa ne ha tratto un film che è in “gioco a Venezia”. Se ne continuerà a parlare certamente. Il romanzo di Fenoglio, apparso postumo (Fenoglio nasce il 1922 e muore il 1963), e lasciato, così si è detto, incompiuto, (esce nel 1968 ma l’edizione critica definitiva, curata da Maria Corti, viene pubblicata nel 1978) è una “pagina” tutta da rileggere. Ma, attenzione, in letteratura ormai è tempo di fari dei bilanci seri e un romanzo del genere non può essere né letto né “giudicato” fuori da un contesto di quella narrativa che ha lasciato segni tangibili nel nostro contesto culturale. Il partigiano Johnny lo si potrebbe definire coraggiosamente l’antiromanzo non di un’antiresistenza ma di una Resistenza diversa, chiaramente più vera.
Ecco perché sarebbe necessario creare un approccio tra questo romanzo di Fenoglio (all’interno di una visione generale degli altri suoi scritti) e quello “famoso” di Pavese: La luna e i falò. Sarebbe sicuramente significativo trarre un film anche da questo romanzo di Pavese. Chi ha il coraggio oggi di parlare dei partigiani rossi di Pavese? Chi ha il coraggio di descrivere i partigiani rossi mentre sparano alle spalle o mentre bruciano il cadavere di Santa? Tra i due scrittori piemontesi (delle Langhe), Pavese e Fenoglio, ci sono alcuni similitudini che andrebbero verificate sia sul piano letterario sia su quello storico sia su quello “ideologico”. Finalmente apriamo le porte di una letteratura che legga la Resistenza non dalla parte dei rossi.
Per decenni abbiamo assistito all’impeto delle sfide resistenzialiste. Anche in letteratura. E alla fine ci si è accorti che non era vero quello che si era pensato o che lo scrittore non aveva scritto realmente quello che qualcuno aveva interpretato. Succedono queste cose. La storia della letteratura deve uscire sia dallo storicismo sia dalle dimensioni linguisticamente strutturali. Ebbene Fenoglio leggiamolo come è nei suoi scritti senza addentrarsi in interpretazioni fuorvianti.
Si pensi un po’, appunto, a quello che è accaduto a Cesare Pavese sul quale spesse volte ci siamo soffermati. Non interpretare soltanto ma documentarsi, leggere quei fatti, seguire le cronache di quei giorni. La letteratura che entra nel cinema non è soltanto linguaggio, è anche immagine. Linguaggio e immagine sono una proiezione di raccordi creativi e storici. Attendiamo vigili.
Quaderno di traduzioni. Un testo che letto dopo una analisi dei suoi scritti precedenti (dai racconti ai romanzi) diventa una chiave interpretativa di un mondo culturale che ha attraversato la formazione letteraria di Fenoglio. Eliot ma anche Coleridge. Una fase preparatoria importante che segnerà tutto l’iter narrativo di uno scrittore che è stato sempre anticonformista. Fenoglio ha tradotto, con una lingua “particolare” i poeti che più ha amato. Ma chi è stato realmente Fenoglio? Al Festival di Venezia si proietta Il partigiano Johnny di Guido Chiesa. Un film tratto dal romanzo postumo di Fenoglio. La Resistenza, i partigiani, le Langhe. Sono tutti aspetti che emergono. Ma La Resistenza di Fenoglio è una “resistenza” diversa. Sia per come i temi vengono affrontati e sia per le realtà raccontate. Certamente il film dovrà stimolare a rileggere uno scrittore che va riletto in una dimensione storica e “ideologica” diversa da come finora è stata proposta. D’altronde lo stesso Fenoglio, non bisogna dimenticarlo, aderì, al Referendum del 2 giugno 1946, per la Monarchia. la sua letteratura non denuncia. E’ diversa da molti “resistenzialisti” di professione. E’ una letteratura che racconta. Il partigiano Johnny è una emblematica testimonianza.
In Beppe Fenoglio la lezione pavesiana, riscontrata in molte pagine, sottolinea quella dimensione o quell’immagine di natura langarola. Pavese fu per Fenoglio non solo un riferimento regionale ma fu un riferimento linguistico ed espressivo di sicura valenza letteraria. Ma lo fu fino a un certo punto. Fenoglio racconta sul filo di un realismo a volte quasi storico a volte addirittura rappresentativo ma mai magico o mitico. In Pavese il realismo viene catturato dal mito. E’ il mito che sovrasta la rappresentazione del quotidiano. L’archeologia del fatto è nell’archeologia della parola. Il mito in Pavese si fa racconto e la memoria disegna il viaggio verso un’isola del ritorno. Pavese è il poeta del ritorno perché è i I poeta che attraversa la fase realista e poi racconta per simboli. 1 simboli non possono sussistere o non possono avere durata senza una decifrazione mitica.
In Fenoglio, invece, non c’è mito e non ci sono i simboli. C’è un solo romanzo, La malora, in cui il mito della terra ha equivalenze pavesiane ma non ha continuità nell’affermazione simbolica. Il tutto si consuma su un piano che ha elementi precisamente veristi. Tutto ciò che vive all’interno di questo romanzo ha marcati elementi di una poetica cara a Pavese ma il tutto si interrompe quando Fenoglio cerca di portare sul piano della rappresentazione ciò che potrebbe restare soltanto dettato poetico.
La rottura, in modo sostanziale, tra Pavese e Fenoglio avviene su una determinazione letteraria che per il primo si sviluppa in una componente mitico -sacrale e nel secondo la caratterizzazione ha esiti sociali. Ma la narrativa di Fenoglio è molto legata ad alcuni temi e ad alcune forme anche sintattiche alla capacità espressiva che si trova in Pavese.
La mitologia della terra e del sangue è la presenza costante che si ascolta in Pavese. Questa mitologia è una chiave di lettura per capire il senso del destino e il sentimento del viaggio che vivono appunto in Pavese.
La malora (1954) è un romanzo in cui Fenoglio recupera il gusto della cultura contadina e i personaggi sono la riaffermazione di un valore di identità. Il mondo contadino o meglio l’appartenenza alla terra è in fondo l’appartenenza alle radici. Terra-morte sono due poli importanti. C’è anche il viaggio. C’è il ritorno alla casa madre o casa paterna. Forse è il romanzo più singolare di Fenoglio. Lo avvicina a Pavese.
Alba è il mito della città. Ma è il paese che sgretola ricordi e fa emergere la nostalgia. Agostino, terzo figlio di Giovanni e Melina, viene mandato a servire nella cascina di Tobia Rabino. Si reca a trovare Emilio, l’altro fratello, – mentre è Stefano che, dopo il servizio militare, resta a coltivare i campi della famiglia – in un seminario nel quale studia per farsi prete. Dopo un dialogo con Emilio, Agostino si sorprende sopra pensiero e gli ritornano delle immagini lontane e così medita: ” … negli occhi di mio fratello vedevo come in uno specchio me e lui al paese, un dopopranzo di festa, che pescavamo con le mani i gamberi in Belbo”.
I “gamberi in Belbo” è una tipica espressione pavesiana come pure: “la mattina della sepoltura faceva sole, e io non sapevo se per questo dovevo rallegrarmi un po’ o intristirmi di più per mio padre”. Oppure si ascolti l’inizio del romanzo: “Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra”.
La conclusione di questo romanzo ha esiti problematici. C’è una tensione religiosa che affiora. Emilio si ammala e ritorna a casa. Nel frattempo, dopo la morte del padre, anche Agostino si ritrova tra i campi della famiglia. L’infanzia è finita. Il padre non c’è più. 1 ricordi affollano i giorni. E cosa resta? Agostino sorprende la madre pregare. Con una preghiera si conclude il romanzo. Una preghiera che racchiude in sé tutta la profezia di un mondo e la devozione di una donna fedele fino in fondo alla cultura contadina. Si legge: “Per paura che io fossi in casa e la sentissi, è andata fuori e s’è inginocchiata vicino al primo palo della vigna. Combinazione io ero in quel filare a vedere un melo se buttava bene, e così l’ho sentita dire: ‘Non chiamarmi prima che abbia chiuso gli occhi a mio povero figlio Emilio. Poi dopo son contenta che mi chiami se sei contento tu. E allora tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami indulgenza per cosa ho fatto per forza. E tutti noi che saremo lassù teniamo la mano sulla testa d’Agostino, che è buono e s’è sacrificato per la famiglia e sarà solo al mondo”.
Qui il gioco delle metafore è importante. La vigna assume contorni quasi sacrali. La vigna in Pavese ha una sua mitologia. In Fenoglio in questo caso e solo in questo caso un palo della vigna è come se fosse un oggetto sacrale. La trasposizione nella civiltà contadina è significativa ed assume in queste circostanze quell’alone metafisico che non si riscontrerà altrove. Da questo punto di vista La malora potrebbe essere considerato un romanzo chiave in una temperie contrassegnata da una diversificazione di ruoli e di testimonianze letterarie. Ma resta tale solo in una lettura in cui le interpretazioni mitico – sacrali, quelle evidenziate, rispondono ad una chiara indicazione simbolica.
D’altronde Fenoglio effettua un ripescaggio che è quello del primo romanzo di Pavese, Paesi tuoi, nel quale la terra, la campagna, la morte assumono codici fortemente simbolici che hanno derivazioni non solo letterarie ma soprattutto antropologiche. Il mito e il sacro sono due punti di forza. La morte come valore e nel valore della morte la forte capacità mitica di trasformare un fatto non in storia ma in griglia simbolica. Nel romanzo di Fenoglio, in questo romanzo, c’è una rottura storica e c’è una ripresa di alcune fasi archetipali. Dopo di che Fenoglio passa o ritorna alla storia, al realismo, alla perdita di quei valori simbolici che hanno dettato la poetica di Pavese.
Già in I ventitré giorni della città di Alba (1952) il realismo in Fenoglio ha una sua logica ma tutto si consuma nella determinazione descrittiva. La chiusa del racconto che dà il titolo al libro è la dimostrazione del relativismo verista. “I partigiani ripresero a salire, era spiovuto, i fascisti entrarono e andarono personalmente a suonarsi le campane”.
Un simile relativismo lo si riscontra in Il partigiano Johnny (1968). Il senso di inquietudine è in fondo “condizione di sradicamento” (Romano Luperini). In Pavese vi è anche questa condizione ma si risolve in una tensione che rasenta il mistico. Per esempio in La casa in collina. Il travaglio di Corrado è travaglio mistico. Invece il partigiano Johnny è usura di una condizione esistenziale e affermazione di una condizione storica. La Resistenza e il Fascismo. Si trasformano in condizioni storiche e storicizzano la letteratura condizionando il ruolo e i destino stesso dei personaggi. Non è un Fenoglio diverso quello che leggiamo in Una questione privata (1963).
Un romanzo la cui tematica affronta ancora problemi di natura resistenziale. Il racconto è una ripetizione realista. Soltanto nel finale il gioco letterario potrebbe prestarsi ad una ulteriore analisi. Il concetto finale è forse l’inizio di una nuova avventura o di un nuovo capitolo. Ma è troppo tardi. Fenoglio morirà nel 1963 (era nato nel 1922). Una questione privata si chiude con questa apertura: “Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. La solitudine è dentro l’inquietudine. Letteratura pur non facendosi impegno si fa denuncia e corre il rischio, a volte, di sfiorare la retorica.
La condizione partigiana viene assunta come condizione esistenziale e la Resistenza diventa mito. Qui c’è la seconda separazione che divide il tracciato pavesiano da quello fenogliano. li mito per Pavese sono gli archetipi e la memoria che racconta sono i simboli che si dichiarano e il destino nel quale si individuano metafore sono le metafore che diventano linguaggio. E poi è la grecità, il paesaggio, il paese, la campagna, le appartenenze. In Fenoglio alcune di queste cose sono appena accennate. Certo ci sono le Langhe, le campagne ma poi tutto il resto è dècifrazione del reale.
Nella pagina finale de Il partigiano Johnny si legge: “Ora i fascisti non sparavano più sulla collina, ma rispondevano quasi tutti al fuoco repentino e maligno che i due partigiani avevano aperto dietro il camion. Poi dalla casa l’ufficiale fascista barcollando si fece sulla porta, comprimendosi il petto con ambo le mani, ed ora le spostava vertiginosamente ovunque riceveva una nuova pallottola, gridando barcollò fino al termine dell’aia, in faccia ai partigiani, mentre da dentro gli uomini lo chiamavano angosciati. Poi cadde come un palo”. Siamo, con Fenoglio, ad un Resistenza diversa da come finora ci è stata propinata anche nei testi di letteratura. O no?
La Resistenza Fenoglio la interpreta mitizzandola ma ciò che resta alla fin fine è la cronaca. Ecco perché ciò che maggiormente convince è il romanzo La malora. Un romanzo, come si è già detto, che ha una sua caratteristica e una sua fisionomia antropologica. La memoria è un filo sottilissimo che lega il passato al racconto. La memoria sostanzialmente si fa racconto. In altri scritti il racconto si fa cronaca. Come nel breve romanzo La paga del sabato pubblicato nel 1969 ma scritto negli anni Cinquanta. Si parla del reinserimento di un partigiano nella vita civile di Alba.
Sulla stessa linea tematica si svolge Primavera di bellezza (1959). Johnny e la guerra partigiana come capisaldi. La realtà come specchio e non come maschera. In un contesto particolare nasce Un giorno di fuoco (1963).
E’ indubbiamente un libro diverso. Soprattutto questo racconto segna, forse, la fase ultima degli scritti di Fenoglio. Una stagione intensa. Una maturazione linguistica che passa attraverso la conoscenza della letteratura angloamericana. Questa conoscenza lo aiutò moltissimo: sia sul piano espressivo sia sul piano della stilizzazione dei personaggi sia nel modo di porgere il racconto. D’altronde lo stesso Pavese si servì della letteratura americana per decodificare alcune espressioni che poi sono entrate nel gergo pavesiano.
Indubbiamente Fenoglio è uno scrittore moderno (e mi riferisco alla tensione espressiva, semantica, alla langue se così può essere detto) e la sua modernità è tutta giocata sulla duplicità tematica. Una duplicità (l’iniziale scavo nella cultura contadina e la sclerotizzazione di questa in cambio di un realismo anche politico) che culmina nella proposta di un documento letterario.
Credo che Fenoglio sia importante proprio per una capacità di trasformare la letteratura in documento anche se gli esiti dal punto di vista stilistico – estetico – letterario sono certamente discutibilissimi. Ma ciò non toglie che il suo paesaggio linguistico è significativo soprattutto quando inserisce nel parlato comune l’inglese. E in tal senso è anche uno scrittore di rottura. Schemi e steccati linguistici in Fenoglio sono superati e la parola assume la rilevanza dei parlato come d’altronde si era già notato in Pavese. In Fenoglio, comunque, la parola resta parola, resta comunicazione e forse messaggio. In Pavese non è soltanto parola. La parola è la chiarificazione di un codice simbolico. E la parola racconta non per duplicare ma per fissare una metafora o, come si diceva, per raccontare un mito. Ma non quello del fazzoletto rosso appiccicato al collo…