Cosa ha rappresentato Carlo Levi nella letteratura italiana e nel visione di un Sud che ha raccolto raccordi tra antropologia e linguaggi? La Lucania, la Sardegna, la Sicilia, i paesaggi della Puglia e della Calabria sono dei monoliti che recitano un grecismo aulico e popolare. La cesellatura più avanti è una dichiarazione d’amore: “…eredità popolare dell’antica chiarezza greca” (da Le parole sono pietre). Ma anche qui la derivazione che giunge dal mito è ben formulata. “Girando poi per le strade di Aci Trezza le era parso, mi diceva la straniera, di passare in mezzo a un popolo di Dèi, tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi gesti, le sue vicende, il suo destino erano come eternamente fissati e eterni, non seguendo una storia individuale volontaria e capricciosa, ma uno stimolo o un costume a tutti comune e immutabile, brillante soltanto di grazia diversa in ciascuno“.
I suoi libri definiscono un viaggio e si definiscono, a loro volta, nella temperie di un viaggio reale e metaforico. Un viaggio che diventa anche un “pellegrinaggio” verso luoghi che richiamano raccordi antropologici, storici, simbolici, mitici. Un intreccio dal quale lo scrittore stesso non si esclude. Non si assenta mai. Lo scrittore partecipa e vive in prima persona il suo raccontare. Perché in quel suo raccontare c’è la vita. Non tanto la vita dello scrittore. Ma l’uomo. L’uomo che vive e racconta. Ma l’uomo non si assenta mai. Il suo narrare è in questa visione del viaggiare alla ricerca di una comprensione che si offre come consapevolezza esistenziale. Era nato a Torino il 29 novembre 1902 e morto a Roma 4 gennaio 1975. Un “popolo di Dèi”, dunque. Un popolo che ha bisogno del mare. La terra vive nel culto di un mondo contadino (per esempio soprattutto nel Cristo si è fermato ad Eboli). Il mare ci permette di dialogare con gli Dèi. Dalla Sicilia alla Sardegna, dal mare di Taranto e Metaponto alla Liguria: “E’ la Liguria intera, da Portofino alla Spezia, oscura, rocciosa, alta sul mare, rugosa e giovanile nel suo allungarsi e sporgersi verso il margine serpeggiante e continuo dove batte l’onda” (da La doppia notte dei tigli).
La cultura popolare trova in Carlo Levi la consapevolezza di una comprensione tutta umana. Quell’umanesimo al quale si riferisce è una corda dell’anima. E lo si trova in tutti i suoi testi. Tutta l’opera di Carlo Levi, comunque, vive in più dimensioni e le contraddizioni affiorano su un mosaico tratteggiato dalla storia e dalla poesia. L’autore del Cristo si è fermato ad Eboli ha una visione evocativa dei fatti. Se la storia definisce un tratto di un’esistenza e la incornicia in un processo che ha anche tensioni politiche la poesia, invece, offre uno spaccato dentro il quale convivono la fantasia e l’immagine (o l’immaginario) in una armonia – disarmonia.
La realtà, in Levi, resta con i suoi inquadramenti descrittivi e rappresentativi. Si incamera, appunto, nella storia. Mentre l’immaginativo avverte l’onirico e il simbolico. La poesia di Levi è oltre la storia e pur ritagliando una cornice politica (come nel testo citato) si distacca da essa per definirsi non come modello o proposta sociologica ma come elemento propedeutico di una pedagogia dell’anima.
In Tutto il miele è finito si ascolta: “Qui, nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare. Nella presenza dell’arcaico ogni conoscenza è riconoscenza./Come quando, su un mare estivo e calmo, appare lontana una forma scura, e ti avvicini silenzioso con la barca, e vedi, giunta dal profondo della memoria, la balena, e la nomini e riconosci senza averla mai prima veduta, come se tu ne avessi l’immagine da un prima in te celato, conservato e geloso, e senti battere il cuore per il riconoscimento, così, fra le cose d’oggi viventi, l’apparire del pastore con il gregge, e il suo viso remoto“.
Pavesianamente si vive una liturgia della memoria che si trasforma in segni di ereditarismo. Quello stesso ereditarismo – radicamento che si osserva in Le parole sono pietre. C’è, in Carlo Levi, la facoltà di leggere il messaggio antropologico come proiezione elegiaca che assume connotati profondamente lirici. Un lirismo fatto non di sembianze ma di connotati simbolici.
I libri di Carlo Levi hanno un cuore e un’anima. Proprio per questo il richiamo all’umanesimo della politica è un codice importante. Ma Carlo Levi non trova (o non lo recepisce) nella politica questo cuore – anima e si lascia attraversare da una poetica che è fatta di senso. Il suo viaggiare resta, dunque, un viaggiare alla ricerca del cuore – anima. Ovvero è la poesia un sentiero alto ma che è fatto di umanità.
L’allussività di Paura della libertà continua a serpeggiare e resta uno dei testi forti di Carlo Levi. Segna, in fondo, una separazione netta tra la magia dei linguaggi che i popoli si trasmettono nel quotidiano che si fa tempo e la realtà definita da ciò che si usa chiamare la storia (o la politica). La civiltà è un recitativo costante che porta immagini, fissa immagini, definisce luoghi e questi luoghi sono metafore e simboli che si raccordano sulle onde del mito.
L’isola è un viaggiare costante. Forse oltre ciò che noi chiamiamo tempo. Oltre la storia. E i simboli si dichiarano come se fossero gesti e parole. Una malinconia assordante che ha costanti processi allusivi. E c’è sempre il tempo. Quel tempo che non conosce l’orologio. Il tempo come memoria. il tempo come storia. “… il tempo dell’orologio è del tutto l’opposto di quel tempo vero che stava dentro e attorno a me” (da L’Orologio).
I libri di Carlo Levi sono libri di una ambiguità profonda. Una ambiguità positiva. La storia è presente. Quella storia vissuta e raccontata nel Cristo si è fermato ad Eboli. Ma c’è la memoria che ci proietta in un tempo eterno, forse ciclico. Quella memoria – tempo che si regge nel viaggio dei luoghi. Luoghi che hanno una geografia dell’esistere. Una geografia che resta dentro di noi. Anche quando “Il miele degli uccelli/ora è tutto finito/ora più non ce l’hai,/ora è finito tutto…” (da Tutto il miele è finito).