Mai titolo fu più depistante (in senso positivo) del “Io sussurro” di Aaron Belotti. Uno si aspetta una voce narrante in prima persona e non la trova, oppure si immagina un racconto sottovoce e invece scopre una storia che si impone con forza e decisione.
In questo romanzo troviamo la storia di due uomini che potrebbero essere i due aspetti dell’Uomo occidentale di oggi, spesso diviso e a volte straziato, tra una vita in cui cercare la vera dimensione esistenziale e un quotidiano in cui lavoro e società pretendono e assorbono ogni stilla di energia. Tutto comincia in una stazione ferroviaria, ed il richiamo al “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino solletica la memoria, stimolato anche dalla citazione del “Barone rampante” che appare nel corso del racconto. Ma le similitudini finiscono qui; non c’è l’amore tra il Lettore e la Ludmilla calviniana, ma ci sono amori stuprati, uccisi, traditi e rifiutati che pure non valgono ad essere sufficienti a negare la possibilità dell’Amore.
Ci sono due uomini che più diversi non potrebbero essere e che pure si incontrano in un non-luogo dove apparentemente nulla è, eppure proprio per questo tutto potrebbe essere. In attesa di un futuro che nessuno conosce (e non conoscerà neppure il lettore alla fine del romanzo), emerge il passato dei protagonisti, evocato da un presente che non appartiene loro – se non momentaneamente.
Le storie si intrecciano, si incrociano, si sfiorano e poco a poco si svelano, al pari del respiro che si confonde con il fumo delle sigarette nella fredda notte che fa da palcoscenico alla vicenda. I due protagonisti sono schiaffeggiati dal loro destino, ma cercano e trovano la forza ed il coraggio di rialzarsi, di andare avanti, di non cedere al masochistico e consolatorio piacere di lasciarsi andare.
Ogni lettore potrà trovare qualcosa di sé stesso in questa storia, anche se è vero che – come scrive Belotti “Il dolore non si condivide, non si può partecipare alla sofferenza di qualcuno, perché la sofferenza è qualcosa di intimo, di personale.”
Il racconto è eco e specchio, non fornisce risposte e certezze ma stimola domande e riflessioni, ricordandoci che “le cose quasi mai sono soltanto quello che vediamo con i nostri occhi” e che soltanto noi abbiamo la responsabilità di cercare e volere la scelta migliore per noi stessi.
Belotti affonda nella vita dei protagonisti con la lama del suo racconto in maniera quasi spietata, invitandoci esplicitamente a fare altrettanto per prendere contezza del nostro quotidiano, per essere ogni giorno quello davvero vorremmo essere.
“Questa è una storia di saggezza, di follia e di libertà. È la storia di un pescatore mai esistito, di uno strano barbone e di un misterioso impiegato. È una storia che travalica il mare, attraverso isole e terraferma, pur svolgendosi tra le quattro mura di una sala d’aspetto di periferia”.