Siamo in un Paese “straordinario e bellissimo”. Ma anche “fragile”. Una osservazione che pone una questione che riguarda la storia di questa nostra Nazione sia dal punto vista dell’assetto geografico sia sul piano del patrimonio culturale ma anche geo-morfologico.
Renzo Piano su “Il Sole24 Ore” del gennaio scorso sottolineava questa riflessione. Oggi è discussione agli Esami di Stato. Invitava a recuperare le periferie. Ma credo che non si tratta soltanto di recuperare le periferie e dare un nuovo senso allo straordinario e bellissimo. C’è una chiosa che riguarda sì il territorio come realtà ma anche il territorio come legame con la identità di un Paese.
In questo gioco alle proposte interessante i beni culturali, come patrimonio non solo materiale, hanno una loro centralità. La storia dei beni culturali non è soltanto una storia di ricerca, di testimonianze, di documentazioni storiche, di tutela e di valorizzazione, di salvaguardia e di fruizione. È anche una storia di conoscenze , di riferimenti, di rispetto di tradizioni e di affermazioni di identità , di rapporti tra la cronaca, la storia e la memoria.
Sì, perché per me parlare di città, di periferie, di città significa parlare di patrimonio culturale nella sua complessità
Se si parte dal presupposto che i beni culturali sono da considerarsi “elementi” della storia della civiltà e quindi sono patrimonio dei popoli non possono che leggersi attraverso la loro traducibilità. Sul piano scientifico non sono traducibili. Lo sono invece sul piano culturale. Ma nella cultura dei beni culturali ci sono i simboli che parlano. Ogni reperto si richiama a un mito. Si richiama a quell’attesa di nostalgia che soltanto culturalmente può trovare la sua espressione e la sua interazione tra storia e vita. La città ha le sue periferie e i suoi “paesi” come i suoi quartieri. Ma non credo che bisogna recuperare le periferie. Bisognerebbe piuttosto recuperare la città, i paesi, la cultura delle architetture tra storia e modernità. Il degrado, il più delle volte, non è dovuto a un muro che crolla, alla Pompei devastata dal destino, alla tragedia dei terremoti… C’è una coscienza della vivibilità del patrimonio che viene emarginata.
È necessario un dialogo più aperto tra ricerca , capacità scientifica, determinazione nella tutela e funzione partecipazione, atto educativo, precisazione nella valorizzazione. Il dialogo comunque è “antico” e si richiama non ad una separazione tra tutela e valorizzazione ma ad una sinergia che deve puntare ad una maggiore “utilità” dei beni culturali. Utilità sia in termini scientifici ( finalizzata ad un progetto integrato di ricerca ), sia in termini storici (di visione complessiva in un percorso di identità ), sia in termini di fruibilità (valorizzazione non solo dei beni culturali ma una comparazione con altri settori ).
Insomma non possono esserci campi separati che operano ognuno per proprio conto. Ecco perché la storia dei beni culturali non può essere soltanto la storia della tutela ma il discorso deve ampliarsi perché i tracciati che hanno segnato il percorso storico del bene culturale sono intrecciati da diverse manifestazioni che richiamano pagine importanti della civiltà di un popolo. La straordinarietà consiste in questo. Dire “bellissimo” è dire tutto e niente. Io lessi l’articolo di Renzo Piano quando venne pubblicato e già allora non mi convinse il fatto di recuperare le periferie. Ormai i Centri storici rispetto ai centri nuovi hanno una loro diversità bio – metafisica della vita.
Ecco perché il rapporto tra i beni culturali e il territorio diventa fondamentale.
I beni culturali hanno bisogno di essere partecipati perché hanno bisogno di essere valorizzati attraverso una politica interattiva del patrimonio che è un valore. Si valorizzano, le città, i paesi, i territori, e torniamo al discorso fatto prima, grazie a un progetto in cui si deve tendere alla maggiore fruizione attraverso una serie di elementi, i quali devono puntare ad educare al bene culturale. Soltanto attraverso una educazione al bene culturale, che deve essere una educazione permanente, è possibile partecipare la memoria di un popolo, la civiltà di un popolo, la storia degli uomini. Avrebbe senso recuperare una periferia quando non si creano i presupposti per farla vivere. L’antico non è nel rapporto tra il recupero e il degrado altrimenti. Le città sono tante città. Le periferie sono agglomerate non solo di case ma di persone, di senso della convivenza e delle condivisioni. Un’opera architettonica non sempre risolvere il problema del degrado se mancano le basi della umanizzazione.
È vero, ormai ho assunto i beni culturali come chiave di lettura, i Beni culturali sono il paesaggio della nostalgia. E in questo paesaggio l’uomo incontra se stesso ma incontra soprattutto i segni di quel destino che hanno fatto il suo passato e che certamente tracceranno come hanno tracciato linee per il futuro.
Il paesaggio della nostalgia è la convinzione che nulla va veramente distrutto. E tutto ritorna sotto diversi aspetti. Un coccio soltanto può dare immense rivelazioni. La lettura di un quadro è sì la testimonianza di chi lo ha creato , ma è anche la testimonianza di una creatività che documenta i valori di un’epoca, di una civiltà, di una società.
I beni culturali come nostalgia. Ma questo ha un parametro culturale sicuramente, ma soprattutto pedagogico. E in quanto tale questa nostalgia va vissuta, va compresa e va partecipata. La nostalgia è ritrovare nel tempo perduto le àncore per un futuro che ha sempre più bisogno non solo di cultura, ma di radici, di identità, di riaffermazioni.
Educare alla partecipazione significa educare alla conoscenza della straordinarietà di questo nostro Paese e quindi significa, in altri termini, educare all’identità della memoria, al messaggio delle civiltà e a saper percorrere una città e un territorio con la concezione vera e viva della comprensione.
Si deve continuare a discutere su questi aspetti e su questi problemi attraverso diversi progetti che devono essere fondamentalmente basati sul recupero di una identità e quindi sulla proposta di una dimensione pedagogica.
La ricerca sul piano dei beni culturali è una ricerca all’insegna della riproposta di alcuni valori e sulla possibilità di rimpossessarsi dei segni e dei luoghi. Ci sono ambienti fisici che bisogna recuperare come il territorio e gli spazi all’interno dei territori e ci sono altri ambienti che fisici non sono ma che investono la sfera della soggettività.
Bisogna partire da un presupposto che è essenziale. Se non si crea una cultura recupero del vivere la città nella complessità è difficile persino poter discutere di temi e di motivi ad essi concernenti. E quando si parla di cultura si sottolinea la formazione, la partecipazione, l’educazione. Educare ai beni culturali è educare al rispetto della memoria. E’ educare alla ricerca della memoria. E’ convivere con la memoria e riproporla di volta in volta. Educazione alla partecipazione è anche educazione alla comprensione.
Si conserva se si conosce. Si torna all’appellativo iniziale. Conservare per conoscere e si conserva soltanto se si conosce. Questo intreccio si risolve solo se si è in grado di creare progetti educativi con la collaborazione di diversi istituti, ma in prima istanza se si crea una collaborazione stretta tra mondo dei beni culturali e mondo della scuola.
L’agenzia della tutela deve operare di concerto con l’agenzia educativa. Pur partendo da problemi eterogenei e pur finalizzando a scopi eterogenei la ricerca il percorso deve essere un percorso unitario.
In una società conflittuale, non trasparente, della transizione, come più volte viene definita, educare alla partecipazione, per ciò che riguarda il territorio, è educare alla rottura della solitudine rimpossessandosi del dialogo con la storia o meglio con il tempo ritrovato. Forse è questa una lettura suggestiva e meno arida.
Il tempo ritrovato è nei segni, nei simboli, nei luoghi che fanno dei luoghi una spazio della metafora dentro la quale l’uomo ritrova se stesso, le radici e una antica identità che ancora gli appartiene. Recuperare la coscienza dell’abitato e poi il “periferico”.