Si chiama “sommerso” non a caso; perché come un iceberg quello che si vede è solo la punta, la minima parte della massa celata alla vista di un osservatore poco attento,e come un iceberg è infido e pericoloso, apparentemente fermo e innocuo ma in realtà pericoloso e – a volte – letale.
Parliamo del lavoro irregolare, indicato con tanti nomi e aggettivi: lavoro nero, lavoro irregolare, lavoro sommerso. Tanti nomi per una realtà unica, per un lavoro che molto – ed a volte troppo – chiede e assai poco da. Poco a livello di retribuzione, e niente a livello di diritti e tutele.
Nei giorni scorsi ha destato scalpore la “scoperta” a Grottaglie di un call center dove gli operatori, assunti con un contratto irregolare, hanno subito una serie di vessazioni e ingiustizie tali da portarli a ribellarsi a chi quel lavoro glielo aveva proposto, promettendo ben altre condizioni.
Non possiamo che salutare con favore tanto la reazione dei lavoratori ingiustamente maltrattati che la reazione di condanna di alcune orze politiche e sindacale; lascia un po’ perplessi il silenzio di altre istituzioni, forse in altre faccende affaccendate (le elezioni provinciali incombono…) ma una riflessione si impone.
Lungi dal voler peccare di “benealtrismo”, che se fosse disciplina olimpica vedrebbe noi italiani sempre sul gradino più altro del podio, è davvero possibile oggi stupirsi ed indignarsi per lo sfruttamento di operatori i un call center telefonico e nulla dire e niente eccepire sui tanti altri episodi di lavoro irregolare che puntellano la città?
Se quello degli operatori del call center poteva essere un lavoro svolto all’interno di una stanza, lontano da occhi indiscreti, si può davvero considerare “sommerso” il lavoro irregolare che ogni giorno viene svolto nelle campagne, nelle piazze, nelle case e nei negozi di Grottaglie, e non solo?
Possibile che nessuno di coloro che potrebbero e dovrebbero vigilare si sia reso conto di quante commesse forse non sono regolarmente inquadrate contrattualmente in alcune attività commerciali, di quanti operai agricoli lavorano in campagna “a giornata” senza nessuna tutela previdenziale, di quante persone scelgono – se e quando la possibilità di scelta la hanno – di barattare dignità e incolumità per pochi euro.
No, crediamo che questo lavoro non sia “sommerso”, è sotto gli occhi di tutti, di tutti coloro che almeno vogliono vedere e non girano gli occhi dall’altra parte. Si obbietterà che non ci sono alternative, che la concorrenza è spietata, che gli stranieri ci rubano il lavoro e che se non lo faccio io lo farà qualcun altro e via giustificando. Affermazioni che abbiamo sentito sin troppe volte, quando certi malcostumi venivano tollerati da uno stato che – incapace di offrire alternative – lasciava correre attività illecite quando non delinquenziali, come era un tempo – ad esempio – la vendita di sigarette di contrabbando.
Sia chiaro, è ben lungi da noi l’intenzione di voler privare le persone meno fortunate di un pur minimo sostegno economico, ma altrettanto chiaro deve essere che l’atteggiamento fintamente compassionevole ed esplicitamente tollerante di chi dovrebbe vigilare e reprimere non fa bene agli sfruttati e non fa bene a chi – datore di lavoro o dipendente – rispetta le regole e osserva la legge, perché si finisce – per una logica perversa che non ammette eccezioni – a livellarsi verso il basso, ad una rincorsa al “meno peggio tanto meglio”, ad una spirale che ha come punto d’arrivo l’azzeramento dell’economia, lo spregio delle regole, l’applicazione della legge del più forte.
Così non deve essere, così non può essere.
E se il primo “non ci sto!” deve necessariamente venire da chi viene ingiustamente sfruttato, costoro non potranno mai ribellarsi se non avranno la tangibile sicurezza di avere dalla loro parte istituzioni, forze dell’ordine, enti ispettivi e sindacati, ovvero chi deve tutelare e proteggere i loro diritti ed i loro doveri, per tutelare e proteggere i diritti di tutti noi.