Può essere vero che la morte si sconta vivendo? Ungaretti ha lasciato segni indelebili tra le parole e i silenzi. Con la sua voce rauca ha recitato il rischio di un tempo indefinibile, ma vivo nelle esistenze che soffrono l’enigma e si intrecciano nell’assurdo. La morte è forse una maschera? Picasso e Pirandello sono i magici profeti che di una profezia che diventa alchimia. Nulla di teologico.
La teologia è anche la ferita inflitta alla morte. Non può esistere consolazione. Per chi muore e per chi vede morire i legami di sangue. È una provocazione occidentale che non conosce il senso della Illuminazione e della Contemplazione. I popoli e le civiltà convivono con il senso della morte e del tragico senza però la retorica del cattolicesimo bugiardo, fingitore e inequivocabilmente ambiguo. Spesso ci domandiamo quale strada avremmo percorso se non fossimo entrati tra i percorsi di strada che stiamo percorrendo. Inutile domanda. Eppure ci guardiamo allo specchio e a volte la domanda giunge spontanea.
Cosa avremmo voluto fare se non avessimo fatto ciò che abbiamo esercitato o esercitiamo? Ci sono giorni di penombra. Perché questi interrogativi giungono ormai nell’età della post gioventù? Perché il tempo ci fa paura. Si teme più il tempo che la morte. Semplice. Perché ci fa paura essere vecchi. Essere vecchi è avvertire la consolazione di chi ti guarda con le distanze della giovinezza.
La morte oltre a scontarsi vivendo è dentro la vita. La vita nella morte la morte nella vita del mio caro Carlo Michelstadter che anche in la persuasione e la rettorica fa della vita il travaglio di un passaggio dalla poesia alla filosofia. Fino a quando la bellezza trionfa la morte è in soffitta e il tempo è una passeggera farfalla. Una farfalla passeggera ma anche sorridente perché accoglie gozzianamente il cuore dello strazio con la consueta “leggerezza” del non senso.
Nel momento in cui si passa al trionfo della morte crolla tutto il nostro impeto e le azioni diventano timide. Dal romanticismo si passa ad essere decadenti. Insomma non siamo incorruttibili. Il tempo ci corrode e ci trasforma in saggi incoerenti pensando che ci salveremo. Ma ci corrompe anche. Io sono un essere che corrompe. Corruttore. Il tempo è mio alleato. Mio complice. Non sono dentro il ritrovato ma costantemente dentro il perduto. Possiamo pur credere al tempo ritrovato nonostante si resta eredi di un tempo perduto? Spesso mi guardo allo specchio e mi pongo questo interrogativo, ma sempre giunge Oscar Wilde. Siamo intrappolati dalle illusioni. Dovremmo smetterla con questa recita.
Siamo nati per morire. È banale? Lo so. Ci ricordiamo di ciò quando siamo già morti. Quando siamo già morti diventa tutto inutile? Tutto diventa inutile! Mentre si ascolta mentre si vive lo strappo di Antonia Pozzi. Lo strappo che nasce dalla solitudine che accompagna la malinconia.
La malinconia. La malattia degli spiriti forti. Crolla nella tragedia che sottilmente lega il bene e il bene oltre al di là del bene e del male stesso. Siamo vissuti di una antropologia della morte e ci soffermiamo ad ascoltare il mare per cedere agli inganni, per essere romantici, sentimentali, ma è tutto virtuale. Tranne la morte. Appena si muore si sparisce. Scompare. Neppure la memoria ci restituisce l’immaginario e l’immagine virtuale. Sempre verrà la morte e avrà gli occhi di chi ci sta accanto e dell’assenza di chi avrebbe dovuto starci accanto. Il mio Pavese in modo quotidiano mi scrive che la morte verrà e avrà sempre gli occhi di si ama. Triste verità che soltanto la metafisica zambriana potrà farci comprendere oltre qualsiasi sorriso o ironico gesto. Non mi accontento che chi non c’è più resta ad osservarmi.
Non mi basta. È la retorica nuovamente cattolica. Ma io cerco la Illuminazione lungo gli spazi dei deserti o lungo le vie dell’indissolubile. Sempre troverò un senso e a questo senso dovrò pur dare un orizzonti.
Lo sciamano al quale spesso affido le mie tristezze mi scrive da una delle sue tredici lune per dirmi che tempo verrà. Mai rinunciare. Bisogna essere creativi sino all’ultimo istante di vita. Non si supera la morte. La si sfida volando come un’aquila e camminando come una tartaruga.
Cosa avremmo voluto fare se non avessimo fatto ciò che abbiamo fatto? Dei miei lettori impazienti colgo lo sguardo e dico loro: coltivate la pazienza perché solo con la pazienza il tempo potrebbe stancarsi. Sempre verrà la morte è sarà invisibile, ma arriverà!.