Esplode in questi giorni una crisi, l’ennesima, che investe il tessuto economico e sociale di Taranto.
TCT, l’azienda che si occupa del trasporto in tutto il mondo di container pare abbia intenzione di mettere fine alle sue attività nel porto ionico, mettendo di fatto a rischio migliaia di posti di lavoro tra dipendenti diretti e dell’indotto. Non si può certo dire che la notizia arrivi inaspettata; da mesi l’azienda aveva spostato alcune sue attività da Taranto a Bari e da ancor più tempo il porto di Taranto era stato messo da parte a favore di altri scali, evidentemente più “accoglienti” di quello ionico.
Appare francamente grottesco leggere notizie del tipo “Se TCT lascia, il Governo ha un piano B”, come se chi è stato incapace, per dolo o per colpa, di predisporre le condizioni necessarie a rendere efficace il “piano A” sia oggi capace di fare in pochi mesi quanto non è stato fatto in lunghi anni. Le carenze dello scalo tarantino sono note e denunciate da tempo: serviva aumentare la profondità del fondo per consentire l’attracco delle navi transoceaniche, serviva razionalizzare i collegamenti intermodali stradali e ferroviari; serviva definire la nuova destinazione d’uso delle banchine, serviva avere tempi certi sulla realizzazione delle infrastrutture destinate ai servizi. Serviva, appunto…. Oggi non sappiamo se serve ancora, perché allo stato sembrerebbe come mettere un cerotto su un paziente oramai in coma.
L’aspetto forse più irritante di questa vicenda, dopo la drammatica situazione di migliaia di famiglie che vedono a rischio la loro fonte di reddito in un territorio che già soffre per una caduta verticale dei livelli occupazionale, è l’assordante silenzio della politica e delle istituzioni; poco o nulla si è sentito in giro e il porto è praticamente scomparso dalla campagna elettorale delle elezioni regionali appena concluse; Taranto, con i suoi rappresentanti locali e nazionali ha nei fatti ignorato il problema, attendendo – per l’ennesima volta – che qualcuno da qualche parte provvedesse a salvare ciò che quasi nessuno in riva allo Ionio ha voluto difendere.
Il porto di Taranto, per la sua posizione geografica, è da secoli un punto privilegiato di attracco, ma come per tante altre eccellenze più uniche che rare presenti sul nostro territorio, gli stessi tarantini se ne sono sostanzialmente fregati, non progettando mai alcuna soluzione efficace per sfruttare al meglio questa risorsa: Taranto non ha una flotta peschereccia a livello di altre città ben più piccole del capoluogo ionico, non esiste – se non allo stato poco più che embrionale – una realtà diportistica in grado di assistere ed accogliere turisti e regatanti e quale sia oggi il livello di utilizzo per il traffico industriale è sotto gli occhi di tutti.
I porti dell’adriatico, come già avvenuto per gli scali ferroviari ed aeroportuali, si fregano le mani e ci fregano le risorse, l’Autorità Portuale probabilmente lascerà Taranto per accentrarsi a Bari mentre Brindisi, messo da parte il suo futuro carbonifero, sta decisamente puntando sul turismo e sulla diportistica. Noi stiamo a guardare, lamentandoci per un destino cinico e baro che abbiamo (non) costruito con le nostre mani, e la terza città del Meridione peninsulare di Italia è – ancora una volta ed ancora di più – umiliata ed offesa.