Cercò di legare i processi estetici di un’opera d’arte, o soltanto del Pensiero, alla ricerca antropologica attraverso una chiave di lettura, in cui la storia avrebbe dovuto condurre il percorso tra cultura e bene della cultura. Raccontò il tempo dell’arte nella visione di una realtà come visione della bellezza. Un tempo in movimento. Ebbe a dire al “Corriere della Sera”, il 16 gennaio 2019, che “L’arte non prescinde dal tempo per esprimere semplicemente lo spirito della Storia universale, bensì è connessa al ruolo delle mode e a tutti gli ambiti del gusto”.
Mi riferisco a Gillo (ovvero Angelo Eugenio conosciuto come Gillo) Dorfles. Era nato a Trieste il 12 aprile del 1910. E’ morto a Milano il 2 marzo del 2018. Un filosofo dell’estetica oltre ad essere stato pittore e critico d’arte. Ha attraversato le “epopee” delle avanguardie confrontandosi costantemente con la dialettica de eredità culturali, che ha assorbito tutto il Novecento.
Ha sperimentato l’estetica non solo in una funzione riflessiva intorno ai linguaggi del pensiero, ma anche vivendo l’arte come estrema conseguenza di una esistenzialità sulla pratica.
Pensare l’arte, dal punto di vista critico, e fare arte. Questo il binomio sul quale ha viaggiato Gillo. Ha saputo anticipare la crisi dell’estetica leggendo con acutezza la modernità con la quale non ha mai smesso di confrontarsi. I suoi libri vanno proprio in questa direzione.
Già a cominciare dalla sua interpretazione sul Barocco come espressione nell’architettura moderna (del 1951) sino a soffermarsi su Vico, e toccando la stimolante visione dei linguaggi di Wittgenstein con un saggio di estrema importanza dal titolo “L’estetica del mito” del 1967, Dorfles pose come riferimento il dato di recuperare il senso della bellezza lavorando intorno al concetto di estetica dello sguardo e del senso. Come dato centrale il Barocco e il Rinascimento nel Barocco. Ebbe a scrivere: “Non dico che sia sparita la bellezza ma di certo è cambiato il gusto appiattendosi verso il basso. Se guardiamo ad altre epoche, come il Rinascimento o il Barocco, il gusto aveva dei canoni molto precisi e rigorosi”.
Aspetti che si troveranno qualche anno dopo proprio rappresentando il valore di senso e di insensatezza nell’arte (1971) che ha trovato la sua sintesi massima in un testo del 1987 dal titolo, appunto, “Itinerario estetico” non trascurando mai il lessico dei feticci che campeggiano nel crogiolo tra storia e tempo.
Si è sempre posto, in un contesto dialettico, il problema dell’importanza educativa dell’arte e dei linguaggi, tanto che scrisse: “Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall’educazione artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità estetica – senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano – è indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole”.
Una posizione forte e imprescindibile soprattutto in una temperie di decisivi sradicamenti e di sfaldamento della bellezza. Da questo punto di vista è molto duro Gillo ed ha delle idee solide sulla questione della modernità. Infatti ci diceva che “La gente ama mettersi a nudo per autorappresentarsi. Una volta non era così, ma oggi con i media vecchi e nuovi c’è un’orgia del vedere e del voler essere visti. Il che tocca non solo le masse ma anche le elites, i pensatori, gli imprenditori, i banchieri, per non dire degli artisti”.
Un epilogo che sottolinea coraggiosamente “Estetica senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014” che risale al 2016, curato da Luca Cesari e in “L’intervallo perduto”, un saggio ripubblicato nel 2012 ma è del 1980.
Ho trovato un punto di non ritorno, e di incontro, con Gillo, nei nostri dialoghi decennali, in due testi che continuano ad accompagnarmi sia sul piano estetico che antropologico e filosofico. Mi riferisco a “Elogio della disarmonia. Arte e vita tra logico e mitico” del 1986 e ripubblicato nel 2019 e in “Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore” del 2008, senza trascurare assolutamente “Conformisti. La morte dell’autenticità” del 2008, curato da Massimo Carboni.
Un itinerario, dunque, abbastanza articolato in cui il tempo dell’arte è sempre un tempo invisibile nella visibilità della metafora della memoria. L’artista è sempre oltre l’arte stessa. Ha rivoluzionato il pensiero sull’arte accogliendo la dissolvenza dell’arte stessa e la morte dell’arte.
Non un artificio ma una cancellazione del dissolubile. L’arte è indissolubile fino a quando la bellezza non presenterà perplessità ad una civiltà che corre inesorabilmente verso le bruttezze. Cercava, in fondo, la bellezza nella dissolvenza e nella “rimanenza” dell’estetica dell’arte : “Il kitsch è un concetto che pervade l’arte, gli oggetti e il nostro vivere quotidiano. Troppe informazioni, troppe immagini, troppi libri: c’è un eccesso di tutto e il bello muore”. Infatti: “La vera opera d’arte esiste solo in contrapposizione al kitsch”, ovvero al brutto. Al Dis – gusto!