Credo che i tempi siano maturi, anche se vivono nella debolezza delle idee, per una riflessione attenta sulla cultura e lo scrittore. La critica letteraria ci spinge verso approfondimenti che sono già intrinseci in un romanzo o in una poesia?
Sono interrogativi ai quali bisognerebbe pur dare una risposta ma credo che in un tempo come il nostro è difficile poter colmare tale perplessità soprattutto perché la letteratura che viviamo è così lacerata che non ci permette (tranne in alcuni casi) di stimolare un qualsivoglia scavo sia di tipo letterario – estetico sia strutturale sia di analisi psicologica.
Lo scrittore deve essere scrittore sino in fondo e non teorizzare modelli. Deve certamente portare la propria esperienza testimoniale. Ovvero la tradizione e il senso della tradizione come valore di sentimenti. La vera letteratura parte dall’uomo. Non ci sono dubbi. Inserire i processi letterari nell’approfondimento della conoscenza delle civiltà resta sempre fondamentale. In fondo l’attualità della letteratura sta nella fedeltà alla tradizione.
Scrive ancora Pamuk: “Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca dell’essere distinto che porta dentro di sé e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrittura, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o la tradizione letteraria, ma è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e si ripiega su se stessa e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole…”.
Ovvero la capacità di portare lo sguardo nelle parole. Mi sembra fondamentale questa cesellatura. Ma ci si pone davanti ad un altro interrogativo: Qual è oggi la funzione della critica letteraria? E’ ancora stimolante e svolge un compito di natura pedagogica e si sviluppa realmente su un piano informativo o si mostra priva di senso con un vuoto di capacità “iniziatiche” verso una proposta di lettura?
Un richiamo antico che porta sullo scenario di una maturazione meditativa scuole di pensiero che vanno da Vico ad Eliade (passando da Omero a Poliziano) sino ad arrivare ai saggi letterari di un grande come Cesare Pavese che seppe legare la critica come interpretazione di un vissuto proprio.
Pamuk ammonisce con orgoglio: “Scrivere è trasmettere questo sguardo interiore alle parole, ricercare un nuovo mondo nella propria mente con pazienza, ostinazione e gioia”. Certo, è una testimonianza che penetra o meglio dovrebbe penetrare il tessuto incerto del nostro tempo. Ma c’è di mezzo sempre il tempo: indefinibile ed indelebile. Tale è in letteratura.
C’è da precisare che il libro che vende non è quello che sviluppa una critica (ovvero un libro su un libro), ma è quello che realizza in presa diretta un rapporto con il lettore. Infatti si ragiona intorno al romanzo. La mancanza di romanzi di un certo spessore hanno portato alla fine della critica ma se ci fosse una critica severa potrebbe anche far rinascere spazi per romani che non siano quelli offerti dall’attuale realtà letteraria.
Lo scrittore diventa viandante tra il vissuto e la contemplazione dello scorrere dell’essere nell’esistenza per cercarsi in un andare che deve somigliare a un pellegrinaggio. In fondo lo scrittore parte come viandante per ritornare, nella circolarità, come pellegrino. La letteratura non è un segreto. Non ha bisogno di segreti o di spazi tra il vento del non detto. La letteratura è mistero. È mistero perché lo scrittore invade il deserto dell’anima cercandosi proprio in questo deserto grazie al silenzio che manifesta la parola che non urla. Che non conosce l’urlo ma l’estetica delle immagini scomparse che si ritrovano nella bellezza degli sguardi. La letteratura è una lontananza dello sguardo.
Lo scrittore che si confonde con il viandante o si ritrova nel viandante – pellegrino è quello scrittore che conosce le pieghe della solitudine e si confronta con la solitudine senza mai assentarsi dalla vita. Anzi è dentro la vita e resta dentro la vita anche quando le parole spariscono e restano soltanto i desideri, i sapori, i destini. Il misterioso che incanta lo scrittore sta nella capacità di rendere la parola misura del rapporto tra la realtà e il tempo.
Qual è il filo tra la realtà e il tempo? È il filo di Arianna che si arrotola nel labirinto e si specchia nel bosco della foresta per definirsi in una indefinibilità che è cammino. Lo scrittore viandante è un camminatore. Il camminamento gioca con le dune dei pensieri e con le rughe del mare per capire i segni del deserto. Se i pensieri si agitano e toccano l’anima vuol dire che prima o poi la parola si farà linguaggio. Non lingua. Ma linguaggio perché lo scrittore usa i simboli e i simboli si dichiarano proprio grazie ai linguaggi che prendono corpo nei sentieri della solitudine.
Così il deserto è un’immagine. Così il mare è un’immagine. Perché lo scrittore può vivere anche chiuso in una stanza e assorbire le partenze e i ritorni. Non si tratta di una cesellatura proustiana. Ma è tutto il viaggiare dello scrittore che si fa memoria e questa memoria si ritrova negli intagli di una solitudine che è solamente dello scrittore.
Bisogna camminarsi perché camminando i ricordi si liberano e non si fissano come una fotografia ma come un destino nell’avventuroso dell’esistenza. Lo scrittore è dentro questa avventura – destino. È necessario il deserto perché solo il deserto crea la distanza nel bisogno di comunicarsi oltre il tempo stesso.
Cosa rimane allo scrittore che vive il deserto? Resta il coraggio di sconfiggere la nostalgia per farsi vero viandante e ritornare a se stesso come pellegrino. Nella storia che ci è toccata in questo attraversamento del presente solo la letteratura può manifestarsi come espressione di una testimonianza e non di una esperienza. Testimoniarsi in quell’essere che non dimentica la forza di una interiorità che non si fa espressione – impressione ma isola. Nella propria geografia il tempo della conoscenza è l’abbandono nella coscienza. Ci si ritrova.
Lo scrittore viandante sa che ritrovarsi significa che ha vissuto il passaggio dello smarrimento. Ci si smarrisce anche tra le parole che hanno la frammentarietà del cammino – camminamento. In questo cammino c’è l’immensità della indefinibilità. L’indefinibile dell’essere è oltre il destino perché c’è sempre il mistero che si dichiara nella indecifrabilità. Questo scrittore pur avendo bisogno di storie sa che il deserto si nutre di parole. Le parole che restano e che non si fanno documento ma recita.
Il critico deve avere gli strumenti per comprendere tutto ciò. Oggi non ha più le condizioni perché lo scrittore viandante è quasi sparito. Lo scrittore vero resta un viandante. Il critico è un pellegrino.Il pubblico dei lettori non può più lasciarsi trascinare dai consigli pubblicitari ma è qui che la critica deve ritornare ad assumere quel rigore che le compete.