La Repubblica Democratica del Congo affonda le proprie radici musicali in una tradizione centenaria, contaminata dal colonialismo e spesso ostile al passaggio del cambiamento. A Kinshasa nascono i KOKOKO!, collettivo multiforme e multidisciplinare riunente artisti, ballerini, performer e musicisti, coloratissimi portatori di innovazione dall’Africa al mondo. Affascinati da sonorità techno ed elettroniche internazionali, costruendo strumenti da materiali recuperati dalla strada si sono affermati per fierezza e luminosità del messaggio che vogliono comunicare, esportando ovunque la propria urgenza di espressione. Proviamo con questa intervista a conoscerli meglio.
La maggior parte del vostro pubblico non conosce la vostra lingua, ma le vibrazioni potenti, la gioia di vivere e celebrare l’esistenza che esprimete attraverso il vostro suono rendono il messaggio in qualche modo universale. Pensate di star creando un ponte verso il mondo tramite questa connessione? Una sorta di comune codice di comunicazione comprensibile da tutti, fatto di sensazioni ed emozioni.
Il nostro album include quattro lingue diverse e questa è un’opportunità magnifica, per chi ci ascolta, di scoprirle tutte. La maggior parte delle persone nel mondo non comprende l’inglese quando lo ascolta in musica per la prima volta, ad esempio in età adolescenziale, no? A meno che non si sia madrelingua. Eppure comunque non ne è respinto Si può avere lo stesso approccio nell’ascoltarci. Inoltre, nel panorama musicale non c’è nulla che suoni come noi, per cui riusciamo ad innescare curiosità negli ascoltatori a prescindere che amino la nostra musica o meno. La combinazione dei nostri elementi è diversa, atipica, non lasciamo mai nessuno neutri, senza opinioni. La nostra musica è unica e si distingue per essere particolare tanto nelle parti strumentali, quanto in quelle vocali.
Per coloro che non l’hanno mai visitata, Kinshasa potrebbe sembrare lontana e sconosciuta. I vostri messaggi ad azioni schiudono una finestra sulla sua realtà e cultura, sulla storia quotidiana che la caratterizza e sulle sue lotte; ma, lungi dall’essere un ritratto triste, disegnate le vostre radici ed origini con orgoglio e forte amore. Potete parlarcene?
Veniamo tutti da Kinshasa, tranne Débruit, ma è lì che ci siamo incontrati e dove creiamo la nostra musica. Quello che componiamo non riguarda solo Kinshasa, proprio come la musica di qualcuno proveniente da Londra, New York o Berlino non riguarda soltanto il luogo in cui abita. La nostra musica è fatta di conseguenze e influenze del vivere a Kinshasa, dell’esserci trovati lì, certo, ma anche dell’avere una visione e un’opinione sul resto del pianeta. L’energia che trasmettiamo è reale e non costruita, non siamo raffinati come alcune band famose nell’industria musicale, non tutto è calcolato e calibrato. Il pubblico può scoprire tramite noi energia e ritmi che a noi sono familiari, interessandosi anche ad alcuni temi fondamentali per la città e il paese, ma non solo questo, perché la nostra immaginazione va ben oltre questo.
Siete nati e cresciuti in un luogo in cui la maggior parte della popolazione non può permettersi strumenti musicali: creare musica con poche risorse risorse, trovando il modo più semplice per farlo, può considerarsi una metafora del vostro bisogno di esprimere un messaggio, di raccontare una storia? Nella realtà di Kinshasa le materie prime sono sottratte alla sua gente, per cui si presenta un problema anche sociale nel dover inventare delle vie di fuga a questo scenario.
Nella band i creatori ex novo di strumenti almeno rappresentano un terzo dei KOKOKO!: ad esempio, Makara Bianko propone una personalissima magia, un progetto su circuiti elettronici con il suo team di ballerini, mentre Débruit ha negli anni stretto molte collaborazioni e condotto misteriose sperimentazioni. Questa combinazione è quello che diventa il nostro carburante. Per quanto riguarda la creazione di strumenti musicali, non potevamo aspettare di poterci permettere economicamente strumenti veri e propri per fare musica, l’impulso era troppo forte, quindi abbiamo deciso di andare avanti con ciò che era disponibile. Un vero e proprio viaggio verso la sperimentazione di suoni diversi, distinguendoci con forza alla ricerca di nuove risonanze. La verità è: ogni cosa produce suono, qualsiasi oggetto può creare un rumore… puoi colpirlo, romperlo, lasciarlo cadere, e così via.
La tradizione musicale della Repubblica Democratica del Congo è lunga e radicata, passando dalla rumba cubana al mix con sonorità africane; ma è anche un ambiente particolare, molto rigido, tradizionalista, non è immediato entrare a farne parte soprattutto se non ne vuoi rispettare le regole più convenzionali. La maggior parte dei nomi celebri dell’industria musicale congolese vive all’estero, mentre voi provenite direttamente dall’interno per stabilire una nuova ondata, una svolta moderna rispetto alla tradizione.
La nostra musica è particolare, anche se è vero che vi si potrebbero ritrovare delle influenze dal ricco patrimonio congolese, sia nel ritmo e nelle melodie. Ma siamo anche influenzati dalla musica elettronica con i suoi loop, i suoi schemi ripetitivi, la sua intensità: l’Africa è enorme, e ogni piccola regione ha il suo stile peculiare di elettronica, come ad esempio in Angola o in Sud Africa dove si possono ascoltare suoni molto diversi all’interno di ogni città. Noi abbiamo trovato i nostri a Kinshasa, e da lì ci muoviamo nel mondo.
Ritenete di star proseguendo ed essere eredi di un percorso avviato localmente da artisti come Konono No.1 e Staff Benda Bilili? Quali sono le vostre principali influenze? Quali totalmente esterne al continente?
Non ci sentiamo propriamente degli eredi, siamo sicuramente diversi, una cosa a sé. Siamo una band che si è incontrata e ha iniziato il proprio cammino a Kinshasa, la terza città più grande di un enorme continente. Non tutte le band provenienti da Berlino o Londra possono essere paragonate l’una all’altra solo perché fondate nella stessa città, no? Le nostre influenze sono il suono dei venditori ambulanti che sbattono bottiglie di vetro per vendere smalti per unghie, o le voci al megafono in loop per vendere schede SIM per i cellulari, o il rumore del passaggio del venditore di uova. Cerchiamo di mettere in ordine quel caos e di presentarlo in forma musicale, aggiungendo quello che desideriamo ci sia o che creiamo al di sopra. Al momento siamo influenzati dalla techno più anticonvenzionale e ci sentiamo fortemente connessi con questo genere, ma anche con band ancora più sperimentali.
Appare evidente che seguiate una visione ben precisa, per quanto sfaccettata: mescolate talento ad abilità ingegneristiche, fondete le vostre competenze come musicisti, ballerini, artisti con capacità artigianali e questo vi rende unici nel vostro genere. Ad oggi, avete pubblicato tre singoli e un EP: quanto è stato difficile all’inizio essere pienamente capiti? Rendere comprensibile il vostro peculiare modo di essere, renderlo intellegibile al pubblico e all’industria musicale?
Ci è sempre stato detto che non saremmo stati in grado di controllare tutto il caos e gli elementi che teniamo insieme sul palco, invece ci siamo riusciti. Il problema più difficile è stato piuttosto quello legato ai visti per viaggiare, mentre la musica è decollata sin dal principio e continua pienamente a farlo senza intoppi. Nella band, ci influenziamo molto a vicenda e ci sembra di crescere col tempo anche al di là di quanto avremmo anche solo potuto immaginare. Non ci siamo adattati ad alcuna regola. Abbiamo fatto il nostro primo tour senza aver ancora pubblicato nulla e conquistando i fan esibendoci e presentandoci con il nostro mood e la nostra energia: nessun calcolo alla base. Quello che facciamo è onesto, non è formattato, può accadere qualsiasi cosa di cui il pubblico è testimone: una tensione, un incidente. É qualcosa che ti arriva e colpisce con forza.
A proposito di “Fongola”, il vostro nuovo album ora in uscita, cosa c’è di innovativo nel suono dei KOKOKO! rispettato al passato e cosa state trasformando nel vostro percorso professionale?
Tutti scopriamo cose nuove mettendoci alla prova di continuo: nessuno è condannato o costretto a suonare un solo strumento, tutti cantiamo – facciamo a turno – tutti abbiamo modi diversi di suonare e tutto è permesso e possibile. Un domani potremmo decidere di rinunciare a uno strumento e suonarne uno nuovo, o voler proporre in chiave differente una traccia già pubblicata cambiandola completamente. Tutto è possibile in questo modo. E tutto è migliore.
KOKOKO! è molto più di una band: è un collettivo di persone che condividono i loro talenti in modo collaborativo e multidisciplinare. Come si crea l’output finale? Partite dalla musica, da un suono, da un simbolo o da un rituale, o ancora da una danza, e poi unite questi elementi tutti insieme seguendo iter precisi?
La musica è alla base; ma, ad esempio, i ballerini potrebbero decidere di creare una danza su una particolare melodia, o potremmo andare a vedere uno spettacolo, o assistere ad opere di artisti contemporanei che non hanno bisogno di musica perché parlano da sé. L’arte e la creatività sono ovunque. Tutti gravitiamo attorno agli altri e ci sosteniamo a vicenda: a volte esibendoci tutti insieme, a volte restando spettatori e lasciandoci ispirare da nostri amici che non compongono musica, a volte da una semplice scena che osserviamo per strada.
Ora che avete guadagnato maggiore popolarità, suonato e viaggiato in tutto il mondo, come vi sentite accolti dalla gente di Kinshasa? C’è differenza con l’accoglienza e l’atmosfera che ricevete quando vi esibite fuori dall’Africa?
L’Africa è enorme, più grande dell’Europa, e vi abbiamo suonato soltanto nella città di Kinshasa e in Marocco, perché è difficile raggiungere altri luoghi. È molto più facile suonare in Europa: ha dimensioni minori e le città sono vicine l’una all’altra e raggiungibili con i mezzi di trasporto. Il mondo non è in equilibrio, purtroppo alcune persone godono di minore diritto di viaggiare rispetto ad altre: abbiamo faticato molto, ma abbiamo bussato duramente a molte porte e le abbiamo buttate giù per spostarci e conoscere il mondo. Le persone a Kinshasa oggi ci rispettano di più per quello che facciamo e che all’inizio non comprendevano, perché a prima vista troppo originale, diverso. Ora, quando suoniamo, il pubblico comprende tutto, lo accetta, e si infiamma: è qualcosa di nuovo sia per Kinshasa, che per chiunque altro.
“Fongola” segna per certi versi il vostro debutto, è il vostro primo album vero e proprio: cosa significa questo per voi, essere arrivati sino a questo punto? Quali sono le vostre aspettative e sogni a riguardo? Quali i sentimenti?
Fongola significa “la chiave”: oggi stiamo aprendo una porta, o consegnando la chiave di questa porta al pubblico per farlo entrare nell’ignoto. In passato da questa porta forse ne eravamo rimasti chiusi fuori noi, o il pubblico stesso rimaneva fermo al di là di essa. Immaginate come possiamo sentirci adesso, finalmente capiti e ascoltati dal lato giusto della porta!