Si è soli non perché si è estranei. Si è soli perché si abita sempre la propria anima? O la propria maschera? Se personaggio si nasce di solitudine si vive. Pirandello muore nella solitudine vivendo oltre il superamento della estraneità della solitudine.
Così: “La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi” .
Il tempo è un assoluto che si intreccia nella misura delle parole e nelle parole che recitano la metafora dell’imprigionamento della vita e della morte. È come se fosse sempre una assenza a far da labirinto dentro la nostra anima e questo labirinto trova la sua compostezza nella consapevolezza proprio di essere labirinto.
“S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti”.
Il labirinto che Alda Merini si porta dentro come in “La presenza di Orfeo” che “mitizzando” il mito in un vortice in cui lo straniero è la dimostrazione dell’assenza che vive oltre le parole.
La poesia che si recita nelle maglie dell’insoluto. Come per dire, o come per dirsi, che tutto si è perduto, tutto si perde o tutto si perderà tra gli scogli dell’indefinibile per ritrovarsi nella immensità della solitudine.
Una poesia che non chiede, come la poesia che è impenetrabile e indifendibile nelle “giustificazioni”, di viversi nelle spiegazioni, nei commenti, nelle delucidazioni ma è completamente intrisa di illuminazioni. La poesia come illuminante attesa di ciò che verrà vivendo il vissuto. Un tracciato oltre ogni dimensione della storia. Questa maledetta storia che cerca di penetrare le parole.
La storia non vuole riconoscere la “follia” dell’arte come in Edvard Munch, perché chiede costantemente di dare un senso alla vita che è stata. Ma quale storia può raccontarsi nelle illuminazioni di una poetica della solitudine, della passione, della sconfitta, della perdizione, della resurrezione?
Può esserci storia. È come se chiedessimo al mistero del poetico di trasformarsi in ragione. È come se chiedessimo all’amore o meglio agli amanti di parlarsi e di definirsi attraverso la razionalità dei fatti e non attraverso la magia dell’incanto o dell’immensità della sera di Quasimodo o di un tramonto di Giovanni Fattori.
La solitudine è nell’intreccio delle fantasie, una voce – destino non solo inquieta e assorbente in un “vortice” di sciagurata pietà, ma è l’indice di una trasparente inquietudine nella quale si è contemplato le tristezze e le doloranti incertezze in un viaggio in cui, nonostante l’agonia e l’angoscia, l’ironia tragica ha fatto da scenario.
C’è uno scenario anche nella poesia dell’esistenza che non è l’esistenza stessa ma la maledizione come dettato lirico di una rimbaoudiana avversione al tutto scontato. La solitudine di Pirandello, della Merini o della Dickinson non è nel tutto scontata. Quella che recita la tensione della morte nella vita e fa dare al verso quest’immagine: “… ed è subito sera…”, nella notte quasimodiana. Un recitativo poetico che conosce la possibilità degli approdi ma spesso dimentica l’infaticabilità delle partenze.
Ci sono partenze? Ci sono arrivi nella disperante voce e negli occhi sgusciati dalle conchiglie di primavera? Non credo che ci sono, oggi che si dovrebbe parlare con il passato tra i battiti delle dita. Non credo che mai ci saranno. Sono convinto che mai ci sono stati. I tagli della solitudine sono trepidanti sempre in squarci di passione.
Si è soli nell’orizzonte? Che orizzonti possono avere gli amori quando smettono di essere Amore? Gli amori nel segno di una scavata nostalgia resta quel petrarchiano
“Mi sembra che potrò facilmente dimostrare la felicita dell’esser solo, se insieme additerò gli svantaggi e gl’inconvenienti del trovarsi in molti, passando in rassegna le azioni degli uomini che questa vita (la solitaria) rende amanti della pace e tranquilli, quella violenti, preoccupati, affannosi. .. Frattanto, stare come in un posto di vedetta, osservando ai tuoi piedi le vicende e gli affanni degli uomini, e vedere ogni cosa – e particolarmente te stesso – passare con tutto l’universo; […] dimenticare così gli autori di tutti i mali che ci sono accanto, talvolta anche noi stessi, e spinger l’animo tra le cose celesti innalzando al di sopra di sé […] È questo un frutto – e non è l’ultimo – della vita solitaria: chi non l’ha gustato non l’intende”.
Dimenticare anche noi stessi, dunque.
Ma quale dolore si sconta nella solitudine? Quello chiaramente della passione o delle passioni che sono desiderio di attraversare la vita o di essere attraversati dai personaggi che noi diventiamo quando personaggio non si nasce? Bisogna andare dentro le parole non per capirle ma per tentare di catturarle.
La solitudine è un archetipo dell’anima. Una metafisica dell’esistenza. Come nella pittura di Edward Hopper? Quanti viaggi sono mancanti di nomi. Restiamo come vedette? Ha ragione la saggezza del poeta che si apre alla modernita?
Alda Merini è il destino poetico di un Novecento poetico italiano intrigante che va da Cristina Campo ad Antonia Pozzi, da Sibilla Aleramo ad Amalia Rosselli e prima ancora di Ungaretti che vive la solitudine del porto sepolto e di uno scendere nel gorgo muto e solitario di una disperate visione pavesiana. Una vita dentro la parola passando con quegli echi che vanno da Dino Campana a Vincenzo Cardarelli, da Carlo Michelstadter a Maria Zambrano e Gabriele D’Annunzio. La dannazione della solitudine che è antropologia del non conoscenza propria e flebile nel nome di una misteriosa metafisica raggiunta e infuocata come un fuoco grande e mai fatuo.
Forse è proprio la Dickinson , in questi versi, che scava nella profezia e anticipa la disarmonia pavesiana:
“C’è una solitudine dello spazio,
una del mare,
una della morte, ma queste
compagnia saranno
in confronto a quel più profondo punto
quell’isolamento polare di un’anima
alla presenza di se stessa –
Infinito finito”.
Maledetta solitudine che è testimonianza di parole e di colori, di linguaggio e di forme che navigano nei cuori forti e sanno della consapevolezza della vita nella morte. Il poeta e l’artista conoscono il crepuscolo prima dell’alba.
Ragionando di solitudine e morendo di vita si superano lo scoglio per restare rinchiusa nella roccia. I poeti persi nell’arte della propria anima si cercano nella propria estraneità.
Non c’è una Venere Alata a far da luce. Tutto è una finzione. Persino la finzione si inventa. Pur di non vivere nella vita ma di morire vivendo la vita. Come stregati. Ma l’artista è uno stregone e l’arte è una strega che vive aspettando di diventare curandera.