Anche questa storia è tratta dal volume curato da Pietro Pierri ed edito con il patrocinio della pluriassociazione San Francesco de Geronimo, in cui sono raccolti alcuni racconti della tradizione popolare grottagliese.
Ancora una volta la voce narrante ricorda le violenze ed i soprusi subiti dalla popolazione grottagliese, questa volta a causa delle milizie francesi che – sotto il comando di Gioacchino Murat – invasero il regno di Napoli.
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Un periodo in chiaroscuro
Sono i primi anni dell’800 quando le truppe d’Oltralpe dilagano in Italia, stravolgendo usi e costumi e portando violenza e distruzione.
Il governo di Murat portò importanti innovazioni sociali, frutto evidente delle regole legislative elaborate in Francia; si pensi ad esempio alla realizzazione del quartiere oggi al centro di Bari che proprio da Gioacchino Murat prende il nome. Cognato di Napoleone Bonaparte che gli assegnò il governo del Regno di Napoli, cominciò la costruzione del nuovo quartiere in una zona pianeggiante a sud del vecchio centro, a ridosso dell’antica città medievale. La prima casa del nuovo borgo fu costruita nel 1816, mentre le mura che cingevano la città vecchia vennero smantellate nel 1820.
Altra innovazione fu portata dall’editto di Saint Cloud, emanato da Napoleone nel giugno 1804 ed esteso al Regno d’Italia nel 1806, che obbligava a seppellire i defunti in appositi luoghi al di fuori delle mura cittadine. Si trattava di un provvedimento che aveva alla base motivazioni igienico- sanitarie ma anche politiche poiché stabiliva che le tombe dovevano essere poste in luoghi soleggiati e arieggiati al di fuori del perimetro urbano e che fossero tutte uguali e senza iscrizioni, al fine di evitare discriminazioni tra i morti.
Si trattò di una innovazione importante, che sovvertiva usanze secolari e che – di conseguenza – stimolò dibattiti e confronti tanto tra la gente comune che tra gli intellettuali dell’epoca, come dimostra la quasi certa ispirazione a questo editto del carme “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo.
Durante il suo breve regno, Murat avviò opere pubbliche di rilievo (il ponte della Sanità, via Posillipo, nuovi scavi ad Ercolano, il Campo di Marte ecc.), e non solo a Napoli, ma anche nel resto del meridione (bonifica delle paludi a Gioia Tauro, illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, progetto del Borgo Nuovo di Bari). La nobiltà apprezzò le cariche e la riorganizzazione dell’esercito sul modello francese, che offriva belle possibilità di carriera. I letterati apprezzarono la riapertura dell’Accademia Pontaniana e l’istituzione della nuova Accademia reale, e i tecnici l’attenzione data agli studi scientifici e industriali. I più scontenti erano i commercianti, ai quali il blocco imposto ai commerci di Napoli dagli inglesi rovinava gli affari (contro il quale lo stesso Murat tollerava e favoriva il contrabbando, il che costituiva un’ulteriore ragione di favore popolare per lui). La spinta innovatrice del decennio murattiano fu rapidamente inaridita dal ritorno dei Borboni.
Dopo la seconda caduta di Napoleone, che aveva cercato di raggiungere a Parigi, fuggì in Corsica da dove tentò di passare a Napoli per sollevarne le popolazioni. Dirottato da una tempesta in Calabria, fu arrestato, condannato a morte secondo una legge da lui stesso voluta, e fucilato a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815. Di fronte al plotone d’esecuzione si comportò con grande fermezza, rifiutando di farsi bendare, e pare che le sue ultime parole siano state: “Sauvez ma face — visez à mon cœur — feu!” (Salvate la faccia, mirate al cuore).
Violenza e sopraffazione
A questa innegabile ventata di modernità si unì – come sempre avviene in caso di invasione bellica – una tempesta di sopraffazione operate dalle truppe francesi: fattorie e conventi furono depredate e spogliate di ogni bene; le chiese furono sconsacrate ed adibite ad impieghi civili, spesso degradate a stalle e magazzini; migliaia di uomini furono uccisi e altrettante donne subirono stupri e violenze di ogni genere.
Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe amaramente commentare; per la povera gente cambia poco nel corso dei secoli; che i colpevoli siano pirati turchi d’oltremare o soldati francesi, che si tratti di avidi feudatari o di chierici ingordi, a cambiare sono i colpevoli ma non le vittime, poiché è sempre la fascia più umile della popolazione a subire le conseguenze peggiori.
E’ a questo che si ispira questo racconto, che unisce il dolore del ricordo e la consapevolezza che per porre fine ai soprusi è indispensabile ribellarsi e cacciare con la forza invasori e prevaricatori.