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I figli sono eredi dei padri. Portano nel cuore i naufragi e le gioie. Portano negli occhi le allegorie e le affabulazioni di infanzie vissute raccontate e diventate ricordo. I figli e i padri. Ivan Sergeevič Turgenev ha raccontato con le pieghe della sofferenza questo cammino nel suo romanzo del 1862: “Vuoi essere felice? Impara prima a soffrire”.

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Una letteratura che riscopre il sottosuolo la miseria e la nobiltà. Restiamo sempre eredi senza però lasciarci complicare la vita da Freud. Perché abbiamo bisogno dell’attraversamento del dolore e di vivere la sopportazione. Bisogna sopportare e lasciarsi macerare dalle macerie. Non bisogna mai “elaborare”.

Convivere con le essenze le mancanze la morte e il suicidio sempre. Occorre saper convivere con la morte pur sapendo che la vita è una insistenza costante nel teatro del quotidiano. Per uno scrittore il suicidio consiste anche nell’aver rotto una pietra di roccia in mezzo a un deserto. Siamo indifesi ma siamo anche nella fragilità dello specchio del doppio e della maschera. Pirandello è un gioco infernale che cerca innescare un intreccio tra il padre è i figli. Trasferisce se stesso e ciò che ha ereditato dal padre e dalla madre ai propri tre figli: Stefano, Fausto, Lietta.
I tre figli di Luigi di Pirandello non smettono mai di rappresentarsi sullo scenario tragico della vita della famiglia. A partire dalla moglie di Pirandello la rappresentazione diventa il tragico e l’ironico di vite spezzate. Antonietta e l’inquieto che si trasforma in follia e Luigi cerca di renderla maschera di se stesso con una recita tra personaggio e assurdo del personaggio stesso.
Lietta è lo specchio infranto nella metafisica wildiana che porta dentro le stanze dell’anima il senso del suicidio. Tenta il suicidio per un grave contrasto con la madre. Pirandello scrivendo alla sorella nel 1916 sottolinea: “La sciagurata donna che m’e’ moglie, dopo aver martoriato dacché e’ tornata dalla Sicilia la mia povera Lietta, ora, in preda a una delle sue più terribili crisi – così Pirandello da Roma alla sorella Lina che abitava a Firenze – s’e’ voltata con inaudita ferocia contro di lei. E la mia povera bambina, presa d’orrore, in un momento di sconforto, s’e’ chiusa in camera e ha tentato d’uccidersi. Per fortuna il colpo non e’ partito dalla rivoltella perché la capsula non è esplosa”.
Fausto e Stefano sono la rabbia e la malinconia. La scrittura e la pittura. L’arte pura. Ma l’arte può superarla quella morte che di porta dentro? Lo stesso Luigi supera l’attrazione verso il suicidio ma si porta dentro un destino di morte perpetuo. La corazza della pietra di roccia diventa una li nazione pancia del mito. Tutto è come se nascesse dal mito. Il mito diventa rivelazione. Lo dice bene il figlio Fausto, nato a Roma il 17 giugno del 1899 e morto a Roma il 30 novembre del 1975, in un libro di annotazioni dal titolo “Piccole impertinenze”.

Impertinenze che sono la conoscenza di una trasparenza del dolore. Una autobiografia nel quale il padre è voce che incide: “Forse ha creduto di vivere la sua vita poiché non sa di che muoia. Muore come si campa”. Stefano, nato a Roma il 14 giugno del 1895 e morto a Roma il 5 febbraio del 1972, drammaturgo, narratore e poeta che vive, nella vita e nei suoi scritti, un costante senso di morte: “Morire non si può./E nascere neppure. In verità,/come da sempre nati,/come per sempre vivi, siamo qua”. Importante resta il Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la Grande Guerra: “Il figlio prigioniero”.

La moglie Antonietta Portulano non è la Penelope del suo sogno omerico. Già qui si rompe un incanto. Pirandello ha bisogno non più della poesia e della narrativa ma della rappresentazione perché ha bisogno del colloquio e della scena per liberare il labirinto della propria coscienza. L’incontro con Marta Abba sembra risvegliare Luigi perché si illude di aver trovato la sua Arianna. Ma non sarà così.
Marta Abba sarà il suo inferno. La riappacificazione con i figli, ma soprattutto con Lietta, perché con Stefano e Fausto i rapporti sono Colloqui di esistenza, è una affabulazione di devozione della chiusura del cerchio lunare. La luna è il mistero ma anche la fine stessa del mistero. Il suo scrivere è inventare ma è soprattutto uno scendere in un sottosuolo per chiedere alle anime della morte il senso della vita.

La “lunazione” panica di un padre che raccoglie i figli intorno alla inquietudine delle distrazioni e del mito. Proprio Fausto pone all’attenzione tre elementi nel suo scritto: i protagonisti, gli inventori, le comparse. In Fausto si legge: “Ciascuno di noi non sa troppo bene che cosa abbia dentro e alla fine come si rendano intellegibili i nostri ‘umori’, perché insomma ciascuno di noi riveli un certo suo ‘stile’, il proprio modo di essere di ciascuno di noi che si è formato chissà perché e come quella sua certa ‘idea’ della realtà, e perché si trovi ad essa in una certa realtà di supposizioni.//E per rivelare quel che non può sapere di se stesso si dà a rivelare quel che crede di conoscere credendo che sia di tutti il medesimo. Lo stile sarà allora quel che non volutamente egli specifica di se stesso pensando di specificare a tutti quello per cui discorrere”.

Credo che sia una delle osservazioni più attinenti sull’opera di Pirandello chiosata addirittura dal figlio Fausto. Una visione articolata tra il conoscere e il credere di conoscere. Un turbare di pensiero.
La vita stringente e inquietante. Nella lettera di Luigi alla sorella Lina si legge: “Mi trovo in uno dei più tristi frangenti della mia vita” (15 aprile del 1916).
Questi tristi frangenti, comunque, hanno caratterizzato non solo il viaggio esistenziale della vita di Luigi e della famiglia Pirandello, ma le sue inquietudini sono entrati nel suo sottosuolo letterario e filosofico “condizionando” il percorso della sua scrittura. Si è testimoniato costantemente scavando nei “colori” della memoria” (Fausto) avendo come riferimento la teatralità di un vissuto che è penetrazione in quel Dostoevskij che è “sottosuolo” e bellezza in un concetto che è pirandelliano: “Io sono solo, e loro invece sono tutti”. E ancora: “Ma l’uomo dove va? Quanto meno, ogni volta si nota in lui un che d’impacciato nel momento in cui raggiunge cosiffatti fini. Il fatto di raggiungerli gli piace, ma averli raggiunti non proprio, e questo, certo, è straordinariamente ridicolo”.

Il ridicolo è oltre la stessa ironia in Pirandello perché è il tragico, appunto, del sottosuolo della memoria, nel quale i personaggi sono l’assurdo e destino. La vita è sempre un lento suicidio del tempo e la morte del tempo quotidiano è far morire la vita, ma è la morte che si consuma. Siamo sempre dei suicidi. Nessuno potrà fermarci nell’uccidere i giorni.

Pirandello trasforma la dimensione dell’onirico in una visione dell’angoscia. La sua biografia è nella sua scrittura! La biografia come inquietante morire!
Così è! Anche se non ci pare.

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