“Per il mio amore pianista” di Elena Rovito è un libretto prezioso, pienamente occidentale nella sua forma esteriore, eppure profondamente orientale nella sua impalpabile essenza, in cui quello che (apparentemente) non c’è da forma e sostanza al tangibile.
Al termine delle sue 72 pagine, il pensiero va a Chuang-tzu ed al suo sogno della farfalla, in cui realtà e fantasia si rincorrono e si afferrano diventando un tutt’uno da cui non si può e non si deve prescindere. I personaggi di questo agile scritto sono i colori, e non solo per i nomi dei due protagonisti, ma anche per le immagini quasi frattali che corredano il testo e per gli scenari evocati dalle descrizioni, in cui sono tutti i cinque sensi ad essere coinvolti in una sorta di effetto sinestetico innescato dalla sensibilità del lettore e dalla sua capacità di mettere da parte la fredda razionalità.
Non è un tempo lineare, quello raccontato da Elena Rovito nel suo “Per il mio amore pianista”, quel tempo che tutti noi vediamo quotidianamente scandito da implacabili lancette reali o virtuali; è piuttosto un tempo circolare, un “eterno ritorno” meno pessimista di quello di Nietzsche e più consapevole dell’ineluttabilità di certi accadimenti, come canta Vecchioni nella sua “Samarcanda”. C’è una trama? Si e No sono due risposte entrambe giuste eppure sostanzialmente incomplete, se non si considera che in questa opera Elena Rovito traccia più un ordito, lasciando appunto al lettore il compito di tessere tra questi fili la propria trama in base alle proprie personali emozioni.
“È un racconto astratto, intimo e poetico, quello che ritroviamo in questo libro” spiega la quarta di copertina, rivelando nel doppio senso etimologico del termine, annunciando la presenza di brevi poesie che sembrano Haiku giapponesi (ancora l’Oriente…), avvertendo della necessità di una sorta di senso di sospensione della realtà a cui il lettore deve prepararsi, segnalando l’opportunità – se non l’obbligo – di procedere tra le righe stampate con un passo lieve e preciso come deve essere il tocco di un pianista. Non c’è un lieto fine, non c’è – addirittura – forse neppure una fine, perché al termine della lettura ciò che rimane è la sensazione che si prova al termine di una struggente melodia musicale, l’attesa sospesa riempita dal chiedersi da dove vengano quelle note, domande inutili eppure indispensabili, come quelle del bambino che si interroga sull’origine del vento o su dove finisca davvero l’arcobaleno, parafrasando una delle poesie presenti nel libro.
Un libro, questo di Elena Rovito, forse poco da ombrellone, più da mezzi toni, da alba lucente o da tardo tramonto, un libro breve ma che pretende tempo, un racconto minuscolo ma che spalanca spazi, un’opera personalissima in cui ciascuno potrà perdere e ritrovare se stesso.