Ovidio vive nella contemporaneità dei linguaggi. La lingua come esercizio dell’esistere. Se Giovanni Boccaccio cercava la sensualità nella bellezza d’amore, un segno decisivo in una letteratura che intrecciava l’estetica mai del vero, ma del bello con il linguaggio popolare e spontaneo Ovidio si prendeva cura dell’amore come arte.
L’arte d’amore non è soltanto l’amore. È l’arte di prendersi cura dell’amore. Prendersi cura è una concetto non astratto ma profondamente radicato nella pazienza. Per amare occorre pazienza e la pazienza è già di per sé il seguire l’ascolto della nobiltà di stare vicino con le dovute accortezze a chi si ama.
Si ama con arte. Ars Amandi. È un principio fondamentale sul quale hanno lavorato molti poeti e molti scrittori e oggi Ovidio rappresenta un riferimento non solo per una letteratura dei sensi ma per una letteratura che è espressione della ricerca dell’estetica.
Credo che D’Annunzio si sia servito con molta accortezza della lezione di Ovidio. E ha fatto della sua lezione non solo uno stile ma una dimensione dell’essere scrittore e dell’essere poeta dipingendo frasi e versi su una estetica della bellezza. Una estetica che non è solo parola, linguaggio, scrittura, ma anche voce, segno, percezione. E anche Boccaccio quando definisce alcuni dettagli si ascolta il mestiere dello scrittore filtrando la lettura acuta di Ovidio.
Ovidio proprio nei suoi tre poemetti di Ars Amandi traccia dei percorsi necessari che scavano, in forma pedagogica, nel come approcciarsi all’amore, alla donna. La donna come centralità materica e non solo metaforica. La donna come piacere nel lusso del piacersi. La donna come complice della finzione e del vero in trasporto di corpo e anima. Si ama con l’anima anche fisicamente. Si ama con il fisico anche in trasposto spirituale.
Ovidio è nell’amore, ovvero nell’essenza di capire la resistenza, la durata e la fine dell’amore. Ma perché Ovidio ha amato. Non ha descritto. Ha vissuto e vivendo si è testimoniato. In uno dei suoi passaggi è fondamentale questo concetto: “Io ho amato in continuazione e, se mi chiedi che cosa faccio ancora oggi, ardo d’amore”. Una dichiarazione che è più di una semplice attestazione perché nell’arte d’amare ci sono anche i rimedi dell’amore. Una cifra letteraria alla quale fa riferimento anche Cesare Pavese. In Ovidio Pavese ha cercato di rintracciare i segni e una griglia di miti che interpretano la decadenza degli amori. L’amore che viene dal mare come la donna che giunge dalle onde. Il rimedio per dimenticare ovidiano è nell’accoglienza tragica della fine in Pavese. Amore e morte, in fondo, sono in Pavese ciò che in Ovidio si rintraccia nei poemetti.
I suoi tre poemetti, infatti, sono un insegnamento che va verso le indicazione dell’amare l’amore: L’arte del trucco, L’arte di amare, Come curar l’amore. Ma l’amore è un distintivo che si specchia nel quadro del tempo. Inavvertitamente. Si scioglie negli anni e pur sciogliendosi negli anni rimane come assoluto a fare i conti, nella distinzione del vissuto, con ciò che si è ottenuto. Si ama per amare e amandosi si costruiscono le vite. E il tempo resta incancellabile dalla geografia dell’esistere: “Scivola occultamente e inganna inavvertito il tempo/e rapidi fuggono a briglia sciolta gli anni”.
Così scrive Ovidio nelle sue Elegie d’amore. Il tempo inesorabile ed è quel tempo che scava la pietra come in Ungaretti che sa di acqua e di deserto. L’amore è proprio questo infinito gioco, in Ovidio, che è fatto di pietra e di acqua. Il trucco delle finzioni. Bisogna truccare l’inesorabile bellezza per rendere immane e indefinita, ma anche distante da ciò che gli anni possono arrecare.
L’amore non deve, non può, conoscere offese. Ma colpe sì. Ed è sempre una linea tra la confessione e il distacco. “Confesso, se pure giova qualcosa confessare le colpe;/ ma dopo la confessione ricado folle nelle mancanze” (sempre dalle Elegie d’amore). Non si può prescindere da Ovidio. Quando Ovidio nei suoi Rimedi d’amore: dice: “Il cuore degli innamorati è assalito con infiniti stratagemmi, come uno scoglio battuto da ogni parte dalle onde del mare./Non svelare le ragioni per cui preferisci la separazione, non dire che cosa ti fa soffrire; soffri tuttavia sempre in silenzio” non fa altro che indicare alla poesia che lega lo Stil Novo al Barocco e al Novecento le vie da percorrere quando la malia d’amore diventa ancoraggio di solitudine e malinconie.
Scrisse bene Baudelaire mutuando proprio la conoscenza di Ovidio: “Se comincio dall’amore, è perché l’amore è per tutti, – hanno un bel negarlo -, la grande cosa della vita!”. E Ovidio avrebbe risposto con i versi delle sue Elegie: “Sono venuto per parlare con te, per sedere al tuo fianco,/ affinché non ti sia ignoto l’amore che susciti”.
In questo intrecciare di suggerimenti e di massime il canto d’amore di Ovidio diventa caratterizzante proprio nel recitativo cantato, in quel recitativo che ha ritmi e toni perché il suo linguaggio, la sua lingua latina, ha saltelli in un cadenzare di sillabe che creano un vocabolario ben definito. Così come nella magistrale opera Le metamorfosi che ha segnato generazioni di scrittori e poeti nell’incontro infaticabile tra poesia e fabula.
Il legame tra il senso del tragico e l’amore resta un archetipo in cui il mito e il simbolo sono un percorso affabulatorio forte. La grecità è una dimensione dell’esistere che cattura e sorprende.
Anche intorno a Le metamorfosi sia D’Annunzio che Dante scavano sino a recuperarne quella liricità latina che ha segni di una marcata ironia. D’annunzio lo vive profondamente e Ovidio rappresenta non solo metaforicamente, bensì letterariamente in termini estetici, il fuoco, il piacere, il trionfo della morte e il notturno. Per D’Annunzio Ovidio resta un maestro.
Poesia è liricità ed estetica: “Le tessitrici intrecciano qua e là/dei fili d’oro e sulla tela intanto/vanno prendendo forma antiche storie”.
Nelle Metamorfosi l’amore ha voce di vento e di cielo: “Intanto però una gran fiamma si accende nel cuore della figlia del re, la quale dopo avere a lungo lottato, quando vede di non poter vincere con la ragione quella folle passione, dice: ‘Invano, Medea, cerchi di resistere: deve esserci qualche dio che si oppone. Strano comunque se non fosse questo (o almeno qualcosa di molto simile a questo), quel sentimento che è chiamato amore’”.
Ancora più melanconicamente lacerante è il dire di Filemone a Bauci, sempre da Le metamorfosi: “Chiediamo di essere sacerdoti e guardiani del vostro tempio, e poiché siamo vissuti d’accordo tanti anni, vorremmo andarcene nello stesso istante: che io non debba mai vedere la tomba di mia moglie, né lei debba tumulare me’. Il desiderio fu esaudito. Furono custodi del tempio finché fu loro concesso di vivere. E un giorno, mentre sfiniti dagli anni, dalla vecchiaia, stavano per caso in piedi davanti alla sacra gradinata e rinarravano le vicende del luogo, Bauci vide Filèmone coprirsi di fronde, il vecchio Filemone vide coprirsi di fronde Bauci. E mentre già una cima cresceva sui loro due volti, continuarono a scambiarsi parole, finché poterono, e ‘Addio, mia metà” dissero nello stesso momento, e la scorza velò e suggellò in uno stesso momento le loro bocche’”.
Ovidio appartiene sostanzialmente a quella scuola poetica di baci e di strazi, di abbracci e di distacchi e gli fa dire con molta disinvoltura nelle Elegie: “…vorrei strappare baci mentre canta”. Oppure nell’Ars Amandi: “Non conviene,/credimi,/accelerare il gaudio estremo,/ma lentamente devi ritardarlo/con raffinato indugio. E quando il luogo/tu scoprirai su cui goda carezze/più che altrove da te, vano pudore/non freni le tue magiche carezze”. Ma nella sua poetica si intrecciano tradizione lirica greca e formazione latina.
Il mondo della poesia mediterranea è tutto un intrecciare di modelli ed elementi ai quali soprattutto il Novecento poetico italiano, in quella poesia rarefatta o nel verso d’amore, ritorna costantemente. Nato a Sulmona nel 43 a. C. viene esiliato sul Mar Nero, a Tomi, nell’8 d. C. Vi muore nel 17 d. C.
Tra i poeti che vivono Ovidio nel Novecento c’è Ungaretti. Quell’Ungaretti dei fiumi che trasporta la roccia e il deserto nelle acque. La VI Elegia di Ovidio è stata ben studiata da Ungaretti. In Ovidio si ascolta: “O fiume dalle rive fangose coperte di canne, m’affretto/alla mia donna: arresta per un po’ le tue acque”.
I fiumi di Ungaretti sono le memorie credute perse, le memorie come le donne che hanno attraversato le nostre vite. E le quattro ossa di Ungaretti sono la visione metafisica di Ovidio quando recita: “Oh, le mie ossa fossero state raccolte e composte/nel paterno sepolcro quand’erano ossa di vergini”.
Nel lungheggiare dei nomi dei fiumi di Ungaretti c’è l’Ovidio che dice: “Mentre parlo il fiume è cresciuto di larghe onde,/il profondo alveo non contiene le acque sfrenate. (…)/Quale viandante assetato ha potuto allora berto?/(…)A costui, folle, narravo gli amori dei fiumi!/Mi vergogno di avere pronunciato nomi così grandi./Guardando questo meschino, ho potuto ricordare/l’Acheloo e l’Inaco e fare il tuo nome,o Nilo!/Ma per i tuoi meriti, infausto torrente, ti auguro/brucianti estati e inverni sempre secchi”.
La fluidità dell’acqua è come l’arte dell’amore. Una metafora che diventa un gioco straziante in Ovidio e in Ungaretti uno strazio di giochi in un vissuto di linguaggi che hanno sempre i segreti di un porto sepolto.
Ma Ovidio conosce molto bene l’arte della simulazione che è quella di Ulisse, l’amante di Circe, di Calipso, di Nausicaa e lo sposo di Penelope che alla fine la vorrebbe anche come amante e non solo come sposa. È qui l’arte d’amore. Ovvero l’arte di amare l’amore come se fosse una perenne illusione, ma di illusioni, sa bene Ovidio, è fatta la vita.
Nei sui Remedia amoris suggerisce: “Sai che cosa ostacola più di tutto i nostri sforzi? Te lo dirò, benché ognuno abbia bisogno di farne esperienze: indugiamo perché speriamo sempre di poter essere amati ancora. Ciascuno di noi è indulgente con se stesso. Abbiamo tutti bisogno di illuderci”. Già, tutti abbiamo bisogno di cogliere, anche nelle arti dell’amore, l’illusione.
L’illusione è un trucco? Come in Ulisse che cerca l’imperfezione per comprendere dove possa abitare la perfezione. Ovidio: “Il marinaio esulta dopo che con cautela ha superato Scilla. Tu evita i luoghi che ti sono stati molto cari: per te sono come i pericolosi fondali delle Sirti, come gli scogli degli Acroceraumi o come la mostruosa Cariddi che vomita le acque”.
Bisogna evitare i ricordi per non lasciarsi aggredire dalla nostalgia perché è la nostalgia che apre le vie alla finzione. Così l’amore. Una volta che è finito bisogna trovare i rimedi per allontanarsi da quel tempo e il tempo cura con il rimedio delle dimenticanze che scorrono negli anni e si fanno trepidanti lontananze.
C’è tutto un mondo greco – latino che accompagna il viaggio ed è questo viaggio verso gli amori mancanti o amori mancati che si ritorna in quell’isola dell’appartenenza, alla quale Ovidio non fece più ritorno e rimase distante dalla sua terra a raccontare la sensualità, a descrive il sorriso e gli occhi delle donne, a cogliere l’inafferrabile desiderio di un destino. Ovidio resta una cerniera tra la tradizione greca e quella latina e resta uno dei poeti maggiormente aperti ai processi letterari innovativi.
Ulisse resta un riferimento. Ulisse che ne Le metamorfosi definisce “il vincitore”. Ma Ovidio non fu come Ulisse. Fu piuttosto come Dante. E cantò gli amori come Ulisse e come Dante e mai dimenticò che la solitudine rafforza il dolore. E la sua epigrafe la si potrebbe trovare negli ultimi versi del Libro terzo de L’arte di amare: “Ecco finito il gioco. È tempo che io scenda dai cigni/che con il loro collo han tirato il mio cocchio./Come hanno fatto i ragazzi, adesso le ragazze,/seguaci mie con eguale diritto, possono scrivere/sui loro ricchi trofei: “Ovidio fu il nostro maestro”.
Forse una semplice epigrafe? O forse tutta una vita racchiusa in concetto che è rivelazione di un legame tra l’amore e la distanza, tra l’arte del vivere e l’arte di vivere in una passeggiata, lunga o breve, tra le passioni e le esistenze. Ma occorre non ricordare per continuare a vivere gli amori tra le illusioni che accompagnano il tempo e il tempo che è una inevitabile barriera alle ferire di tutto ciò che non si ha più.
Ovidio è in questa arte di amare lungo il paesaggio di una metaforica “metamorfosi” che è l’esistenza stessa. Bisogna avere la forza di non ricordare la terra che si è lasciata: “O terra, addio!/Mai più ti cercherò” (in Le metamorfosi). E mai più spiegherà le vele per far ritorno nella sua patria. L’esilio non resta soltanto una geografia della lontananza, ma anche una dimensione dell’anima.
Le parole che si ascoltano in Tristia sono un intreccio di una tristezza raccolta nella pesante nostalgia: “Andrai, piccolo libro, senza di me nella Città, ma non ti invidio./Va’ – va’ nella Città a me proibita – proibita al tuo padrone”.
Ovvero per viverlo nella sua lingua, che resta vita e immaginario, memoria e riposo, si ascolta: “Parve – nec invideo – sine me, liber, ibis in Urbem:/ei mihi, quod domino non licet ire tuo!”. In esilio la poesia terrà in vita la sua parola poetica. Senza la poesia l’accettazione dell’esilio lo avrebbe portato immediatamente alla morte. È la poesia la sua compagna. La nostalgia che diventa esercizio di esistere è una ragnatela tra il detto nelle parole e il taciuto del cuore.