‘Omar Khayyam nato nella Persia del Nord – orientele, a Nishabur, nel 1050 d. C. (o qualche anno prima o dopo) e muore intorno al 1130. Una tradizione persiana e sufi. Uomo di scienza. Poeta. Tra Oriente e Occidente ha segmentato le parole che toccano il cuore. Ne sa qualcosa Vincenzo Cardarelli che vi ha dedicato dei versi. Straordinari. Ma Khayyam ha lavorato su un verso che sembra una miniatura. Quartine che danno un senso alla vita e si lasciano leggere come perle di rugiada perché non raccontano ma disegnano tasselli di silenzio e di tempo.
Una poesia forse vissuta sulle onde di una ritmicità che richiama echi di mito. O altro. Ma la sintesi della parola forma delle quartine o una accoppiata di distici che recitano non il recitabile ma ciò che sta oltre il segno della comune e quotidiana morale. La poesia non si giustifica e tanto meno si spiega.
E il linguaggio resta nel vento di un mistero implacabile come sono implacabili i destini che si intrecciano. Forse un cantico o un recitativo che si lascia ascoltare nella tensione lirica araba: “Se fosse dipeso da me il mio venire, non venivo/E se da me dipendesse l’andarmene, quando mai me ne andrei?”.
Il partire o il non partire. L’Oriente non è un simbolo e neppure una griglia di stilemi lungo il tracciato del tempo. Il poeta è fortemente voce persiana e dentro la parola ci sono i segni e vi restano come scavo impresso per un cammeo. “Vivi dell’oggi e non perdere al vento la vita”. Forse si va nel camminamento o forse si ritorna nella partenza. Ma il suo nome è Oriente puro.
Khayyam significa fabbricante di tende. Di veli e di foulard nel mistico sentire il verso come dichiarazione di fede. In fondo il poeta rimane certamente un grande mistico altrimenti il suo segno non lascerebbe il senso e non avrebbe senso perché “Nessuno ha mai messo la mano su una guancia di rosa/Senza che il Fato gli mettesse una spina nel cuore/Come il pettine: se non è cento volte tagliato/Non può toccare i riccioli di una bella fanciulla”.
Il Fato o forse il destino o ancora il mistero. Il mistico ha bisogno del mistero altrimenti sarebbe tutto una finzione o una maschera. La saggezza della poesia indissolubile è proprio nella non decifrazione del mistrerioso e nel singhiotto di una attesa che è fatta di segreti. Il mistico vive di segreti e il mistero non è un segreto ma la vita indefinibile del mistico stesso. E la poesia vive dentro questi codici illeggibili a volte. E forse lo sono. Ma circondano il tempo della vita e mai la vita del tempo. Si ascolta la luna. Il mistico ascolta la luna e avverte il mare in naufragio. E cosa fa il poeta? Raccoglie le stille della luna senza vederla ma sentendola o meglio ascoltandola. Solo il mistico ascolta la luna.
Solo il mistico può ascoltare la luna. E il poeta è dentro questo camminamento. Fuori da ciò che definiamo realtà. Perché la realtà è una trasfigurazione di un presente che ha ferite lasciate tra le pareti del cielop. Il cielo dell’anima e il labirinto del cuore. Le “Quartine” di Khayyam ci indirizzano verso una luce che inebria e ci lasciano tra la gioia e la tristezza in una melanconia che si intreccia alla nostalgia. Parole consumate. Ma la poesia è fatta di parole. Si consumano.
Se non interessano le parole si bruciano in un istante. Se colpiscono come lancia lo sguardo lacerano. Qui tutto si ricompone in quell’unica partenza che affascina nell’affascinante segno del “Vivi lieto questo attimo, allora, finché sei vivo”.
Una aurora che si fa luce e una luce che è dentro la geografia delle terre e delle acque che sono dentro di noi. Siamo fatti di terra e di mare. Il viaggio continua ad appartenerci.