I fondali del Golfo di Taranto sono da diversi anni sotto l’occhio attento di studiosi e scienziati.
Si discute da tempo infatti sulla possibilità o meno, ad esempio, di aumentare la profondità delle acque del porto per favorire l’attracco di navi con pescaggio più profondo, come erano (e spiace dover parlare al passato…) le portacontainer che da tempo oramai hanno scelto altre destinazioni. Il problema è che le sabbie ed i fanghi dei fondamentali sono un vero e proprio “archivio storico” di quanto nelle acque marine è stato immesso e scaricato, e così il timore è che quanto emergerebbe dai dragaggi sia tanto e più inquinato dei terreni che circondano la zona industriale, risultati pesantemente contaminati.
Ma non tutto il male viene a volte per nuocere, e proprio su questa caratteristica di trattenere e conservare gli elementi chimici ed organici veicolati dalle acque ha fatto affidamento un gruppo di climatologi e oceanografi coordinato dall’Università di Torino che ha studiato i sedimenti marini del Golfo di Taranto ed ha ricostruito i periodi di siccità e di alluvioni degli ultimi 2000 anni in Italia Settentrionale. Le correnti marine che partono dall’Adriatico raggiungono infatti il golfo ionico, trasportando i microrganismi che nel tempo si sedimentano. Nel caso specifico è stato dimostrato che i foraminiferi (microrganismi marini vissuti in superficie e depositati nei sedimenti) conservano nei loro gusci traccia delle piene del fiume Po. Dalla composizione dei gusci si è potuto risalire alla quantità di acqua di origine fluviale e di conseguenza alle variazioni della portata del Po nel tempo.
Gli studiosi, nello studio pubblicato su “Scientific Reports” hanno così potuto datare tanto i periodi di calma del più grande fiume italiano che quelli più turbolenti, compresi quelli che andarono dal 1600 al 1800, con una sorta di piccola era glaciale caratterizzata anche da numerose gravi alluvioni, ancora ricordate nelle cronache storiche della pianura padana.