Il tema del viaggio trova nella poesia il riferimento fondamentale, soprattutto perché si realizza un processo all’interno di quei linguaggi che usano la metafora non solo come elemento espressivo immediato ma anche come realtà tematica il cui approccio è dato dalle identità esistenziali e territoriali.
Il viaggiare è una problematica esistenziale e letterale ma è proprio nella letteratura che si impossessa di una registrazione mitico – simbolica che occupa lo scenario su i due poli di distacco e di incontro, ovvero la partenza e il ritorno.
La tesi omerica rimane sempre attuale perché resta nella contemporaneità quel tempo della memoria che si legge come indefinibile e infinito. Se la poesia è una forma della letteratura è chiaramente una decodificazione in quello spazio-tempo che non ha bisogno di giustificazioni o spiegazioni ma vive e si avverte sulle onde di tre elementi portanti: la percezione, l’impressione, l’immagine. Su questo “quadro” si focalizza la poesia di Stefano D’Arrigo (Ali, Messina, 5 ottobre 1919 – Roma 2 maggio 1992).
Una poesia di viaggio certamente ma anche una poesia di mare il cui legame è dato da un sentimento forte che è quello dell’attesa. In D’Arrigo l’attesa coniuga non il tempo del quotidiano ma quel tempo della nostalgia che è una estetica (dolorante o meno) della memoria. In questo poeta siciliano c’è un tessuto espressivo che ha richiami ed echi onirici che rimandano ad una grecità profonda. Il dato dell’ulissismo che permea il senso e l’orizzonte della poetica di D’Arrigo è una costante che si intreccia con i moduli linguistici, con l’essere della poesia e con i luoghi che, comunque, non rispettano nessuna traccia della temporalità.
In Stefano D’Arrigo, dunque,il tempo del viaggio non è il tempo delle cose ma è quel tempo della memoria che incide quei solchi irrimediabili di un destino che nell’uomo si focalizza nella cifra degli archetipi. I suoi versi sono la chiarificazione di una comunicabilità tra l’essere e il tempo e l’isola della metafora non è più soltanto un viaggio ma si reinterpreta come un vero e proprio pellegrinaggio e quindi quel tempo del viaggio si definisce poeticamente come il tempo di un viandante.
I versi della poesia dal titolo “Pregreca” sono un’emblematica testimonianza di questo andare nell’io del tempo, nell’io del viaggio. Si consolida un processo che ha nel suo interno una dimensione culturale (perché è il portato di tradizioni e di temi che sono il senso della metafora poetica) ma soprattutto si consolida il significato di un linguaggio tutti intriso di atmosfere e funzioni comunicanti il cui modello è, appunto, il lirismo mediterraneo. E di propositi ed esiti mediterranei il linguaggio poetico di D’Arrigo è abbastanza ricco.
Proprio nella poesia appena citata ci si rende conto di un intreccio di paradigmi che rendono la sua poesia fluida dal punto di vista dei legami e degli incontri con i simboli e con i miti che hanno matrici mediterranee. Si ascolta: “Isola, sole e luna e moventi/mortali, misteriosi paradigmi/di sfingi, puma, leoni ruggenti/che faccia d’uomo, profili d’enigmi/rugosi sotto palpebre di belva,/appostati in una oscura parola,/nella loro stessa ombra,/in una selva/colore di funebre lava viola”.
Un incastro in un linguaggio che ha desinenze e derivazioni arcaiche ma il destino dell’isola come metafora della solitudine diventa un una aprioristica penetrazione nell’essere del tempo. Il “pregreco” non è solo nella sua isola, ovvero geograficamente nella sua Sicilia, ma vive dentro gli intagli dell’anima, di quell’anima che di per sè è una marea di simboli che sottolineano il gioco di una parola che ha sempre bisogno di trovare un raccordo con modelle comunicativi. Certo questa sua poesia è l’esplosione di “un fuoco greco” che arde il quotidiano sempre dei ricordi che invadono la scena nella quale il poeta si trova a vivere. E questo fuoco che arde però viene proiettato oltre.
La poesia si trova anche in quell’oltre che è naufragio della contemporaneità. Quanto Omero c’è nella contemporaneità? Si ascolta: “Dopo dieci anni, al mezzo dello Stretto,/ci gridiamo addosso la nostalgia/di quel profilo che tesse in Eliso,/del cane sulla soglia che ci aspetta/ormai per morire ai nostri piedi/in un breve rantolo di fedeltà” (da “Sui prati, Ora in cenere, d’Omero”). L’oltre è un misterioso incanto che intrappola gli sguardi delle parole e li rende echi che si nascondono nelle pieghe delle conchiglie. Ma la poesia vive di echi. La poesia del viaggio e il poeta che vive di viaggi nella memoria e lungo i granelli del mosaico del tempo sono un andare lento nella pazienza degli uomini che credono nella meditazione.
La poesia di D’Arrigo non è una immediata meditazione (come tutta la vera poesia) ma è una poesia perduta nello spazio dei linguaggi e poi le parole incidono in un sentire che resta marcato nei solchi della storia. Una storia che però si assenta dalla cronaca per rendersi libera negli orizzonti dell’eterno. Non si può che recitare con D’Arrigo: “Qui, dove mi assomiglia, in patria,/sui prati, ora in cenere, d’Omero,/io da una guerra reduce, e da quante/un gran figlio mi ricorda mia madre,/perduto con lo scudo o sullo scudo,/desidero tornare spalla a spalla/coi miei amici marinai che vanno/sempre più dentro nei versi, nel mare” (dalla poesia appena citata).
I flutti dei giorni negli smarrimenti che sbiadiscono l’aurora non sorprendono i marinai. I marinai sono sempre dei pescatori e si lasciano guidare dai colori degli arcobaleni. I poeti come i marinai. Così nella poesia di D’Arrigo.
Le parole, il mare, il vento, l’attesa: codici di una poesia profondamente mediterranea dove solo il linguaggio ha la forza di aggomitolare il sentiero dell’incanto. Di quell’incanto fatto di esilio e di distanze, dove “Il giorno muove ancora nei giardini” mentre le albe si confondono con i crepuscoli e i tramonti sono un precipitato di colore su un mare di altura che richiama destini. Ancora la lingua. Ma il Mediterraneo è una lingua. E’ fatto di lingue: “Nessuno più mi chiama in una lingua/che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,/dal Nord al seguito di Federico,/o ai miei occhi nera e appassita in pugno/come oliva che è reliquia e ruga” (da “In una lingua che non so più dire”). La lingua e i linguaggi sono appartenenze che ci indicano le strade da non dimenticare.
Il tempo stropicciato tra le reliquie e i riti. Ma D’Arrigo non si arrende davanti ai miti e neppure davanti alle reliquie. Perché, in fondo, è la memoria che disegna il cammino. Questo immenso cammino che è fatto di esodo e di radici. L’eterno dell’indefinibile è il linguaggio che si tramanda. Anche oltre quell’oltre omerico. In un luogo in cui le stagioni non sono apparenze ma racconti di nostalgia: “…perché è vero/che anche la vostra meta è mistero”.
Può un poeta del viaggio non vivere nelle rotte della nostalgia? I porti e le partenze sono un fluire di sensazioni e il poeta vive di sensazione pur sapendo che la pazienza è una luna d’estate su un mare che sa di ascoltare destini e sa che i destini vanno custoditi. Così: “A noi senz’anima solo un’immagine/può fare la fatalità, destino,/colpire la fantasia” (da “Gioventù/Qui ci passa ad annodare”).
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