Ne è passato di tempo dai giorni che si leggeva quel romanzo riferimento che è stato “Cent’anni di solitudine”. Un romanzo che sconvolgeva stili e strutture, scritto da uno scrittore che non negava di esse castrista. Mi riferisco, appunto, a Gabriel Garcia Màrquez nato ad Aracataca il 6 marzo 1927 e morto Città del Messico, oggi, 17 aprile 2014. Eppure, quel suo primo romanzo, si è trattato di una lettura faticosa, che personalmente non mi ha mai convinto, ma che ha segnato un percorso narrativo. E lo dico con molta convinzione. Non mi ha mai affascinato nonostante le atmosfere e gli scenari che avevano una dimensione tra l’onirico e il meta – storico in una temperie in cui solitudine e tempo campeggiavano.
Non mi ha entusiasmato non per questioni ideologiche ma per come si presentava nella sua struttura. Però ho cercato di leggerlo sino in fondo per tentare di capire, di capirlo. Sembrava, in quel primo periodo, uno scrittore relegato a quel “Cent’anni di solitudine”. E così non è stato. Poi sono andato avanti attraverso “L’autunno del patriarca”, “Foglie morte”, “Racconto di un naufrago” sino a “Cronaca di una morte annunciata” che nella sua semplicità mi ha fatto scoprire o riscoprire una visione narrate significativa.
Ormai sono i libri che mi vengono incontro. Non li cerco, sono loro che mi cercano. Senza badare a recensioni, mi intrufolo nelle librerie ed osservo. Un colpo d’occhio e non leggo le prefazioni o i retrocopertina ma vedo immediatamente (nei romanzi chiaramente) ad alcune pagine. Mi basta una pagina per scegliere e acquistare un libro, portarmelo a casa e leggerlo dall’inizio alla fine. Così è stato con “Viverla per raccontarla”, libro di memorie sul quale mi sono già soffermato, e con “Memoria delle mie puttane tristi”.
Proprio quest’ultimo romanzo mi ha fatto ritrovare il gusto del personaggio che si confronta con il tempo. Ho riconsiderato Marquez scrittore. Lo dico con molta onestà. In molte pagine si ascolta il fascino di Jorge Amado, il grande scrittore di un emblematico romanzo che è “Mar Morto”.
Ecco. Questo mio discorso vuole essere una sfida anche ideologica. Noi siamo qui a leggere, a discutere, a creare confronti a proporre una lettura nuova e diversa della letteratura e degli scrittori lasciando da parte gli schemi, le appartenenze ideologiche, gli scontri verbali e le leggerezze d’animo sostenendo una visione di letteratura che è quella della tradizione certamente ma ciò non toglie che non ci si possa incontrare sul piano dei processi letterari con altre visioni e dimensioni.
Ebbene, il romanzo di Marquez, “Memoria delle mie puttane tristi”, è un romanzo da leggere per la malinconia che penetra l’anima. Un novantenne cerca di regalarsi, per festeggiare i suoi anni, una notte con una adolescente vergine. Scandalo per i ben pensanti. Il moralismo è morto tanti anni fa proprio per il concetto a – morale espresso da colore che pensano di dare lezione di moralità. Per carità, la letteratura non può essere danneggiata dal falso pudore. In fondo è sempre una maschera o il doppio e mai lo specchio. Altrimenti non avrebbe senso neppure D’Annunzio o Mishima.
Chi considera la letteratura ancora uno specchio è un razionalista o illuminista da esorcizzare. O un integralista che non può capire il senso e l’abbandono della letteratura e del mistero che si versa in ogni pagina di letteratura. e’ anche sensualità la letteratura. Si racconta, dunque, delle puttane triste che hanno attraversato la vita di un uomo. Non ho mai conosciuto puttane allegre. Nel loro fondo, nel loro cuore, nella loro anima, nelle loro macerie ci sono sempre i labirinti di una malinconia che, a fine serata, porta al pianto. E queste puttane vivono la vita tra il pianto e la consapevolezza – inconsapevolezza di una vita bruciata. E per un vecchio riscoprirsi in quell’eros che solo una puttana può offrirgli è riscoprire un tesoro.
Metafora ciceroniana riportata da Marquez: “ Non c’è vecchio che dimentichi dove ha nascosto il suo tesoro”. Molti fingono di dimenticarlo. Ma non può farlo uno scrittore, soprattutto uno scrittore ormai anziano che sa che nella vita ci sono le alchimie e le sconfitte e il linguaggio è il solo riposo che annulla il tempo che segna l’ultima tappa. E il fantastico esplode con le finzioni.
Le finzioni, appunto, dello scrittore. Appunto la finzione come la favola, l’utopia, l’immaginazione. E cosa fa questo novantenne? Legge alla sua prostituta “Il piccolo principe” di Saint-Exupéry o “Le mille e una notte” o i “Racconti” addirittura di Perrault. E cosa fa ancora? La dolcezza prende il sopravvento scagliando onde di tenerezza. Così: “… mi resi conto che il suo sonno aveva diversi gradi di profondità secondo l’interesse per le letture. Quando sentivo di aver toccato il fondo spegnevo la luce e dormivo abbracciato a lei finché non cantavano i galli”.
Che bella immagine. Un piacere sottile che scandalizza proprio per un senso di pudore che uccide proprio lo scandalo che avrebbe dovuto produrre una notte d’amore tra un novantenne e una vergine adolescente. Ci sono le metafore. Metafore che provengono da un vissuto e dalla storia. La letteratura conosce il pudore?
Marquez cita ancora una frase, forse attribuita a Cesare, che segna il paesaggio esistenziale del romanzo: “E’ impossibile non finire per essere come gli altri credono che uno sia”. Tutto il resto? Poi quando si esce dalla letteratura ci sono i giorni che continuano nell’agonia felice di un tempo che registra gli anni che ci inseguono e inseguono la morte.
Le tristi puttane sono nella realtà come la morte che non la si può vincere. Se tutto questo è scandalo la letteratura è una fregatura. Ma dal momento che io credo nella letteratura insisto nel considerare Marquez, Nobel 1982, uno scrittore da leggere oltre ogni gioco tra ciò che una volta si diceva destra e sinistra.