Il sentimento della grecità, per la cultura occidentale, vive in un intreccio in cui l’orizzonte di civiltà è rappresentato dall’idea del Mediterraneo come crocevia di modelli non solo storici ma anche esistenziali. Ci sono processi culturali antichi che si offrono come modelli di identità. Non si può vivere senza modelli e tanto meno senza le tracce identitarie.
Il Mediterraneo, in fondo, congiunge due disarmonie cercando di tenerle insieme attraverso elementi storici. Ma ormai non bastano più. La storia unisce e divide. E’ stato sempre così. La letteratura crea, invece, dimensioni di comprensioni grazie ad una visione cosmica che ha ragione di esistere solo se sopraggiunge una forte consapevolezza delle diverse identità che qui potremmo anche legittimare come forme di etnie. Perché la letteratura si intaglia tra le maglie di queste etnie che riportano tutta la nostalgia dei popoli.
Appunto, la letteratura è la unione dei linguaggi. Perché i linguaggi non sono solo istanze espressive o “movimenti” di comunicazione. Sono soprattutto una offerta di simboli e di segni attraverso i quali si tocca non la parola o le parole ma si tracciano miti. I miti che sono il portato (o il “rimasto”) delle civiltà. Sono il passato in quanto trasmissione di una memoria e proprio per questo si fanno tradizione.
La grecità non può che essere letta come l’incontro e la separazione e ancora la separazione e l’incontro tra Occidente ed Oriente. Luogo sacro e luogo laico diventano un parlarsi e un ascoltarsi costante. Si fanno dichiarazione letteraria. La letteratura è una chiave di letteratura fondamentale per capire la coscienza di questi due mondi e di queste due civiltà.
Byron aveva ben capito i segreti di queste due culture. Due sentimenti in un unico viaggio. Grecia ed Oriente, per Byron, si miscelavano. Bisanzio e Atene. La letteratura si serve della memoria. Il sentimento della grecità vive sul filo di una riappropriazione che è quella profondamente omerica. Ma Omero è l’esistere della memoria. E’ quella nostalgia alla quale si faceva cenno che non abbandona mai la nostra anima e il nostro sentire il tempo. Tutto ciò che resta di un mondo scomparso resta perché si ha la capacità di leggerlo sotto le spinte dei simboli o del mito. Altrimenti con la sola ragione della storia non infonderebbe emozione e sentimento. Resta tutto ciò che noi abbiamo la capacità di filtrare come passione poetica, o come tensione poetica. E resta dentro di noi come incancellabile destino.
Ha così scritto Maurizio Bettini nella Introduzione a In Grecia. Racconti del mito, dell’arte e della memoria di Donatella Puliga e Silvia Panichi: “Oggi possiamo – anzi, dobbiamo – viaggiare la Grecia semplicemente per conoscere i suoi monumenti, così come possiamo leggere o ascoltare i miti greci solo per l’interesse che queste narrazioni sono ancora in grado di suscitare dentro di noi. Possiamo sederci sulle pietre dell’Acropoli e ascoltare il racconto di Teseo che scaglia in mare il crudele Scirone…”.
Ascoltare, dunque, i frammenti di un mito che lentamente penetra nella nostra vita, nel nostro tempo, nel nostro essere e ci cattura. Perché il mito non ci allontana dalla memoria. Anzi è proprio il mito che si intreccia nel racconto del quotidiano per trasformarlo in coscienza sublime.
Il sublime, maestosa e straordinaria dimensione dell’estetica, vive nella letteratura. Perché il misterioso è in essa. Non si nasconde ma continua a vivere nel segreto delle parole che non restano solo linguaggi. E siamo fatti di linguaggi. Di linguaggi sconosciuti. Di linguaggi che ci riportano a degli archetipi che non si cancellano anche quando noi non ci saremo più.
Il fascino della grecità sta proprio, dunque, in una coniugazione, (o meglio congiunzione) tra Oriente ed Occidente. Quel mare che può leggersi anche come la metafora del deserto è fatto di onde o di dune e fa avvertire sempre un orizzonte nelle lontananze dello sguardo. Siamo dentro questo orizzonte che inseguiamo ma che non smette comunque di inseguirci.
Sergio Valzania in Tre tartarughe greche annota: “A ben guardare tutta la Grecia è un lembo di terra affilato proteso nel mare, a mezzavia tra oriente e occidente, ma proteso anche nel tempo, fra antichità e presente. Le distanze che qui si percorrono nello spazio sono piccole in proporzione ai trasferimenti temporali ai quali costringono gli incontri che si fanno”.
Il mare, dunque, continua ad essere destino tra le civiltà. Ma popolo e civiltà sono in simbiosi e vivono nell’anima del tempo. Quest’anima che cerca l’eternità e non smarrisce quella filosofia dell’attesa che vive proprio tra quelle civiltà e quei popoli che stanno in mezzo al mare. Il mare, allora, diventa la vera anima e non solo in termini metaforici ma anche etici ed esistenziali. Si legge nel testo di Donatella Puliga e Silvia Panichi: “Memoria, ricordo, durata, permanenza: concetti che se riguardano ogni tipo di racconto mitico, sono a più forte ragione intrecciati a quello di Orfeo, in cui si realizza un misterioso cortocircuito tra il tempo e l’eternità”.
Tempo ed eternità! Ma a quale viaggio apparteniamo? Non possiamo non sentirci Greci ma non possiamo non avvertire nella nostra coscienza il graffito di un Mediterraneo che non è solo Occidente. Il destino che graffia lungo le pareti della nostra anima è un tracciato indelebile sul quale non possono che sussistere radicamenti e altri radicamenti e altri destini ancora.
Quell’Oriente che entra nell’Occidente e viceversa è un insieme di simboli che non può che dichiararsi se non attraverso i fogli del simbolo. Ed è qui che la letteratura si fa rivelazione. Anzi si fa redenzione. La letteratura, in fondo, ha la capacità di redimere. Perché ha altresì la capacità di trasformare l’istante in ricordo e il ricordo in memoria.
L’identità è una lunga memoria che penetra dentro il costato del tempo. non possiamo non dirci Greci ma Greci dentro il Mediterraneo. Un Mediterraneo che non ha solo un processo storico da difendere e da offrire ma anche, forse soprattutto, una grande nostalgia, che proviene dai popoli e dalle culture che lo hanno attraversato e lo hanno vissuto, da proporre costantemente.
Il rapporto mare – terra è un intreccio che ha coinvolto un legame forte tra Oriente ed Occidente. Il tema del viaggio è un tema assillante all’interno delle letterature antiche, nelle quali il mito è una definizione che supera la storia. Il mito è nato per dare al tempo una leggenda profetica e per andare oltre la realtà stessa. Uno dei grandi studiosi che ha approfondito questa materia è Carl Schmitt. Il destino di un popolo si traccia sulla linea che ha segnato le sue radici, le sue origini, le quali diventano, appunto, appartenenza.
L’intreccio tra terra è mare è in Schmitt una memoria depositata. Ma i processi che intaccano queste visioni hanno delle derivazioni bibliche. Il pensiero meridiano non è un fatto che nasce da una creazione della sociologia comparata. E’, invece, una metafora costante che regna proprio nei testi biblici. Il Mediterraneo non è attuale in termini politici, geografici, economici. Il Mediterraneo è stato sempre una consapevolezza nelle culture sommerse che hanno attraversato l’Occidente e l’Oriente. Una metafora che è continuata e si è impossessata di quel destino che segmenta la vita degli uomini e dei popoli.
Sono i popoli che hanno reso il Mediterraneo storia e dopo l’attraversamento storico è leggibile come dimensione mitica. Non in senso che racconta sfere della mitologia calata nella modernità. Il Mediterraneo non è né attuale perché è il sempre che lo caratterizza e non rientra neppure come modello di discussione contemporanea. Diciamo, invece, che è la modernità che si è impossessata della straripante allegoria del Mediterraneo. Ormai siamo capaci di ficcarlo in ogni discorso. E non mi pare che possa continuare così. Occorre chiarirsi. Se non riusciamo a leggere il Mediterraneo come elemento di una spiritualità in un intreccio tra il mito omerico e la sacralità biblica continueremo ad accarezzare semplici soddisfazioni ma che restano soltanto tali perché, in fondo, non hanno la forza di costruire. Il Mediterraneo, invece, ha realizzato civiltà, ha inventato culture, ha formato i popoli.
La memoria di un popolo si trasforma in un processo politico se resta fedele ad alcuni principi fondanti che sono il dato ereditario e il dato profondamente religioso. Non ha senso il Mediterraneo senza il pensiero cristiano. Gli ereditarismi hanno un senso non sul piano storico né su quello sociologico ma su un piano prettamente etico. I popoli che hanno viaggiato il Mediterraneo e si sono parlati lungo la linea tra Occidente ed Oriente sono i popoli che raccontano la nostalgia di una civiltà.
La nostalgia serve se riesce a proiettare modelli di cultura che abbiano alla base una testimonianza spirituale. La cultura laica, quella sclerotizzatasi nell’enfasi dell’ideologismo, ormai non riesce più a parlare, a dire, a progettare. Si è aggomitolata in un radicalismo che ha perso i contatti con la realtà. E pur di apparire si mostra con le sue confusioni.
Bisognerebbe recuperare la religiosità del Mediterraneo. Ma recuperarla nella sua interezza, nella sua profondità e anche nel suo valore misterico. Il Mediterraneo è un popolo che ha fatto della meditazione una ragione d’essere. E’ un popolo, in fondo, che ha fede, che vive l’attesa come un segno profetico. Un popolo contemplativo e come tale è un popolo che sa pensare e che sa difendere la sua tradizione sul banco di prova dell’operatività e dell’intervento. Perché pensare è anche progettare.
In fondo come ebbe a scrivere Fernand Braudel: “Il Mediterraneo è una buona occasione per presentare un ‘altro’ modo di accostarsi alla storia”. In quanto per dirla con George Duby: “Non abbiamo ripudiato la vecchia eredità: solo, abbiamo scelto di stabilirci nella sua parte tenebrosa”.