Oggi nel negozio di cancelleria di un amico ho visto un sacchetto contenente una polvere dal vivace colore azzurro.
Incuriosito, ho chiesto cosa forre, e lui mi ha risposto che era del solfato di rame, che avrebbe utilizzato per decorare in modo tradizionale alcune stoviglie di ceramica.
Come molti sanno, il solfato di rame era impiegato in agricoltura, e soprattutto in viticoltura, come fungicida di copertura ad azione anticrittogamica preventiva. Ancora oggi, vicino a molti tendoni o spalliere è facile trovare una cisterna di cemento dall’interno colorato di un intenso celeste, prova inequivocabile del fatto che in quel contenitore veniva preparata la soluzione che sarebbe stata irrorata sulle piante.
Ricordo ancora gli ammonimenti di mio zio, quando allontanava noi bambini dal “corposanto”, evidente storpiatura del nome commerciale di uno dei prodotti più usati, che però rendeva anche inconsciamente evidente la pericolosità del prodotto nel caso fosse stato malaccortamente manipolato o – peggio – ingerito.
Avrei scoperto molti anni dopo che in quelle enormi – ai nostri occhi di bambini – vasche di cemento si lavorava la cosiddetta “poltiglia bordolese” un fungicida rameico di contatto, ad azione preventiva, utilizzato come anticrittogamico.
Il preparato era utilizzato già ai tempi dei Romani e si otteneva dalla neutralizzazione del solfato rameico pentaidrato (il composto più stabile, con formula chimica CuSO4·5H2O, e colore blu brillante) con idrossido di calcio, la cosiddetta “calce spenta” prodotta per idratazione a secco dell’ossido di calcio, denominato anche “calce viva”.
“Lu vetriulo” o “verde rame“, come spesso veniva chiamato, aveva una triste fama e credo che più di qualche agricoltore ne abbia sperimentato purtroppo i dannosi effetti collaterali; a noi bambini però affascinava il suo colore brillante, che risaltava ancora di più sul verde delle foglie di vite su cui veniva spruzzato, un tempo con la pompa a spalla azionata da una leva laterale instancabilmente mossa dal contadino, oggi da trattori appositamente attrezzati.
Ieri come oggi, il trattamento con poltiglia bordolese nella vite è indicato contro le più comuni malattie come la peronospora. Il primo trattamento può essere fatto quando i germogli sono lunghi circa 5-8 centimetri e cioè – a seconda del clima e della collocazione geografica – attorno alla seconda settimana di aprile, il secondo trattamento quando le gettate hanno una lunghezza di circa 11-20 centimetri.
I trattamenti hanno cadenza quindicinale, da ripetersi in caso di pioggia. L’ultimo trattamento della stagione va fatto non oltre la prima settimana di agosto, anche se – a differenza dei trattamenti sistemici che sono endoterapici (ovvero entrano nella circolazione della pianta) – la poltiglia bordolese ha azione coprente ovvero superficiale.
La poltiglia bordolese non è però priva di effetti collaterali, ed ha infatti il difetto di lasciare sul terreno notevoli quantità di rame che è un metallo pesante, altamente dannoso per il suolo. In quanto metallo, esso non viene degradato da processi fisici o biologici ma resta permanentemente legato alle particelle di suolo su cui è stato impiegato.
Il rame risulta rapidamente legato dalla materia organica nei suoli in cui questa è disponibile, per cui i suoi effetti si fanno sentire soprattutto sugli organismi che di questa materia si nutrono, tanto che è noto il suo effetto tossico per i lombrichi.