L’ironia degli sguardi tra la vita e la letteratura. L’ironia della parola. L’ironia del silenzio. Tre sentieri, tre immagini, tre ascolti. La letteratura senza l’ironia avrebbe la capacità di scavare nel rapporto tra vita e il magico?
L’ironia è pirandelliana. Il Pirandello dell’umorismo ha il tragico nei personaggi che si leggono in una iniziale commedia in una visione liturgica – onirica.
In D’Annunzio c’è immediatamente il tragico sia nei personaggi che nelle atmosfere. Ma l’ironia e il tragico sono intreccio nei linguaggi e i linguaggi non sono soltanto parole vissute o taciute. Sono l’esistenza che scorrono nella vita di uno scrittore. Lo spazio dello scrittore è lo spazio concesso alla parole o è lo spazio che la parola concede allo scrittore.
In Giuseppe Berto di cui si preparano le celebrazioni per i 40 anni dalla morte (nato nel 1914 e morto nel 1978) lo spazio si vive nella sua interiorità e nella sua apparenza e l’apparenza non è sempre un immaginario, ma è un incontro tra due “esercizi” della scrittura che non si assenta mai dalla indefinibile scorrere del tempo. Il tempo diventa il frazionamento dei ricordi in una interazione tra padre e memoria del figlio. La memoria del figlio è sostanzialmente lo spazio tra il vissuto e il ciò che avverrà.
Da “Il male oscuro” a “La cosa buffa” sino ad “Anonimo veneziano” l’ironia si vive sempre intrecciata a due concetti “pesanti”: la morte come pensiero o come sospensione e il sogno come penetrazione dell’anima oltre le ombre. L’ironia, in Berto, è il tentativo di sconfiggere il tragico, ovvero gli orizzonti di morte che serpeggiano tra le pagine dello scrittore.
I suoi “Racconti” sono un camminare tra gli scenari di un rapporto tra la vita che si vive e la vita che si rappresenta. Vita e rappresentazione sono in Berto la esclusione dei limiti tra le parole che scavano tra i sogni e il sogno che diventa rivelante. Il rischio del tutto testa la paura. La paura di aver paura (sia in “Il male oscuro” che in “Anonimo veneziano”) vive dentro gli spazi del vuoto. Con il vuoto è difficile dormire. Così nel racconto: “Il seme tra le spine”. Ma c’è anche il nulla. “… poi ripidamente più nulla”. Così in “Necessità di morire”.
Il vuoto e il nulla. Sono spaccati d’anima tra le vite perse e le vite inseguite. Il vuoto e il nulla, in Berto, sono espressioni di una dimensione ironica? Quasi in tutti i suoi racconti la dispersione si fa dissolvenza. Lo stesso avviene nei romanzi. C’è sempre una dissolvenza tra il raccontato e il vissuto. Ma qui il racconto e il vissuto non sono un incontro. Piuttosto un intreccio. Ecco dunque come la griglia dell’ironia diventa la griglia dell’esistere per non dimenticare. Per non dimenticare occorre sconfiggere l’impazienza.
Berto non vi riuscirà a trafiggere l’impazienza e resterà tra i luoghi di una ironia che vivono l’incastro tra il certo, il dubbio e la finzione. Solo l’ironia risulterà un destino.
Se in Pirandello l’ironia dialoga con l’umorismo che recita la tragedia. In D’Annunzio il tragico ha bisogno delle ironie. In Giuseppe Berto la ironia vive anche nelle impazienze. In fondo i suoi scritti sono un camminare le impazienze nella vita e nel tempo delle storie diventate destino. La letteratura, in Berto, vive tra le paure e i vuoti cercando, comunque, di attraversare i deserti. Ovvero di andare oltre il deserto e segnate i colori tra gli orizzonti: “Poi non di sentì più neanche ridere”.
Così nel racconto: “Sensibilità”. Sensibilità. Il senso delle vita nella percezione. L’ironia dunque come esistenza ed esistente in Berto.
(Si ringrazia per il contributo la professoressa Marilena Cavallo, autrice del presente articolo)