Era il Dicembre del 1982 ed insieme a tante altre persone ero in piedi a fare la fila davanti al cinema Petraroli per la proiezione dell’ attesissimo “E.T.” di Steven Spielberg. Poiché mancava ancora mezz’ora all’ inizio del film decisi, insieme ai miei amici, di fare un salto in uno dei bar lì di fronte. Al’ interno c’era un videogioco che da subito calamitò la nostra attenzione. Si trattava di un gioco innovativo per l’ epoca, uno sparatutto a schermata fissa: il famosissimo Galaga della Namco.
Quasi ipnotizzati da questa astronave lanciarazzi che distruggeva navi nemiche disposte ordinatamente su più file con in sottofondo una musica elettronica di Bach, proseguimmo a giocare incuranti di quante volte la scritta “insert coin” ci appariva davanti agli occhi. Presto ci accorgemmo che non ci bastavano più i soldi per andare al cinema e ce li consumammo tutti al videogioco. Da quel giorno iniziò in me un interesse crescente per i videogames. Dopo Galaga ed il mitico Pac-man scoprii un altro grande gioco appassionante, Gyruss della Konami.
Si trattava di uno sparatutto anch’esso a schermata fissa caratterizzato da una astronave posta al centro del video che ruotava su se stessa in modo circolare sparando le altre navi. Ogni livello corrispondeva ad un pianeta e si partiva da Nettuno fino ad arrivare alla Terra. In seguito divenne disponibile anche per il Commodore 64 dato il grandissimo successo avuto nelle sale giochi. A casa avevo la console Intellivision della Mattel Electronics ma a causa dell’ elevato costo possedevo solo due giochi sportivi, il Soccer ed il Basket.
Ogni gioco costava 49.000 lire del 1983 mentre la console 399.000. Non avrei potuto chiedere di più ai miei genitori. E allora per giocare bisognava andare nelle sale giochi. Eravamo a metà degli anni ’80 ed era l’ epoca d’ oro delle sale giochi. Le girai praticamente tutte prima di trovare la mia preferita: addò lu Biondo. Mimmo Piroscia detto lu Biondo era il gestore della sala giochi che si trovava in via Alfieri, di fronte al palazzo di otto piani. Aveva da poco superato la quarantina anche se ne dimostrava molti meno, era un evergreen. Il soprannome gli derivava appunto dal colore dei capelli.
Proverbiale era comunque la sua flemma da English-man. Sempre pacato, calmo e tranquillo con parole misurate. In poche parole, un mito. Do lu Biondo più che una semplice sala giochi era diventato un centro di aggregazione sociale. Oltre che a giocare ai videogiochi era un luogo in cui conoscere persone, socializzare, giocare a biliardo e “a stecche” gioco in cui lu Biondo, nonostante la sua flemma era praticamente imbattibile. Per darci appuntamento ci dicevamo:”Alli sette do lu Biondo”.
Do lu Biondo anche nei giorni più sfigati trovavi sempre qualcuno con cui parlare, fosse anche solo lo stesso Biondo. Dal Biondo poi si poteva lasciare di tutto, era un posto sicurissimo. “Ahè vite ca agghiu lassatu lu quaderno cu l’ esercizie ti matematica do lu Biondo, cuepietele e puertemele crè alla scola”. Riguardo ai videogiochi poi li aveva tutti. Ricordo il primo Street Fighter della Capcom in cui potevi comandare il solo Ryu e se si giocava in due anche Ken ed il mitico Golden Axe della SEGA, uno dei primi picchiaduro a scorrimento.
Giornate intere a giocare con lo gnomo vichingo dalla grande ascia di Golden Axe o a Street Fighter II coi ragazzini ad avere i loro primi picchi ormonali davanti alle coscione da popolana di Chun Li. Indimenticabili poi le sfide a biliardo cercando di imitare i colpi di Zito o di terminator Nocerino.
Un’ altra bella sala giochi dove andavo ogni tanto era do lu Sgheo. Non ricordo bene se fosse in Via Fogazzaro o in Via Salgari. Ricordo che quando giocavamo a biliardo i ragazzi che frequentavano spesso quella sala ci dicevano “Vagnù mi raccomando, no tuzzate li stecche n’terra ca ci no lu Sgheo tice parole”, oppure se qualche sfera da biliardo cadeva a terra: “ Mena cugghitila subbto prima cu si ni dona lu Sgheo!”.
Col passare del tempo l’ interesse per le sale giochi era diventato più sociale che per divertimento. Infatti i videogames a casa li avevano in tanti con giochi come i platforms, i punta e clicca e gli FPS (come Doom per esempio) che si prestavano più come giochi da PC. Ma si andava ugualmente alla sala giochi per chiacchierare con l’ amico o magari per cercare di scoprire quelle particolari sequenze di tasti per fare le combo o le fatality delle ultime versioni del Mortal Kombat.
Ora grazie ai social-network in cui si privilegia il rapporto virtuale al contatto umano anche le sale giochi si stanno svuotando. La tecnologia uccide la tecnologia, “video killed the radio star” cantavano i Buggles nel ’79 e “Ni vitimu alli sette do lu Biondo” è diventato “Ni vitumu sobbr’a Facebook”.