La mattinata trascorsa al forno di Carlo, o da Lino – come molti lo amano chiamarlo – in via Arciprete Maranò nel centro storico di Grottaglie (clicca QUI per vedere il video del 2010), ha offerto l’opportunità di approfondire la conoscenza di quella che è una vera e proprie arte della panificazione che fa parte della storia nazionale e che a Grottaglie vanta l’ottima qualità dei prodotti da forno.
La preparazione del pane da vendere – impasto, lievitazione e infornata – dura quasi tutta la notte, poi la mattina presto il grande e antico forno a legna utilizzato dai fornai che si sono succeduti nella bottega fin dal 1700, viene riacceso per infornare altre forme di pane, biscotti, friselle e taralli, questa volta però portati dalla gente che li prepara in casa propria ma desidera che la cottura avvenga nel modo tradizionale. Carlo gestisce la propria attività cominciata dal 1981, come si legge dall’incisione della data che decora la porta metallica della bocca del forno.
La figlia Annamaria è il suo braccio destro e conosce per nome tutti i clienti che ogni giorno arrivano anche dalle parti più lontane del paese per acquistare il pane cotto a legna. Il calore che c’è nel panificio è piacevole ma se si pensa che il lavoro del fornaio si svolge tutte le stagioni pensiamo alle temperature che si raggiungono durante l’estate. La professione del fornaio è abbastanza dura e richiede costanza e meticolosità. Gli orari sono serrati e la pulizia una delle regole fondamentali da rispettare.
Ci viene detto che le pale usate per le infornate sono di faggio e vengono acquistate una volta intrapresa l’attività in un numero sufficiente a durare per molti, molti anni, in quanto non è possibile acquistarle se non facendosele realizzare da maestri artigiani su misura. Il pane tradizionale prodotto generalmente per la vendita è composto da farina, acqua, lievito e sale e la pezzatura va dal mezzo chilo al chilo e poco più. È il pane base, che si presta a numerose varianti, con la farina semplice che può essere sostituita da farina integrale o di altri cereali.
Il pane pugliese che viene fatto in casa ancora oggi dalle massaie appassionate si presenta in forme di pezzatura piuttosto grande, anche fino a 3 kg e può essere conservato anche per una settimana rimanendo morbido. Lo si consuma quindi affettato ed è ideale sia per accompagnare i comuni pasti di ogni giorno che come soluzione per la preparazione di sfiziose bruschette. La particolarità di questo pane è la presenza, nell’impasto, del rimacinato di grano duro e di un pizzico di aceto di vino (l’aceto è presente in rapporto 1/5 rispetto all’acqua).
La puccia è un tipo di pane tipico del Salento ma diffuso in tutta la Puglia. Il nome deriva dal latino “buccellatum”, termine che indicava il pane militare. Ciascuna forma ha il diametro di circa 20-30 centimetri. Molto diffuse sono le pucce uliate (con le olive), delle pucce più piccole, fatte di un impasto di grano duro mescolato ad olive in salamoia. Le pucce uliate si trovano tutto l’anno in Salento, ma sono tipiche della vigilia del giorno dell’Immacolata, giorno in cui la tradizione vuole che si faccia digiuno e si mangi solamente una puccia, così da dar modo alle donne di seguire i riti religiosi che in quel giorno hanno luogo.
Una variante della puccia è quella gallipolina, la “Puccia Caddhipulina”; anche questa viene tradizionalmente preparata il 7 dicembre, la vigilia dell’Immacolata, ma, a differenza dell’uliata, nell’impasto contiene anche burro, pomodori, acciughe, tonno, capperi ed olio extravergine di oliva.
La frisella (o frisedda, fresedda, frisa) è una variante tra pane e tarallo, fatta di grano duro (ma anche orzo o in combinazione secondo varie proporzioni) cotto al forno, tagliata a metà in senso orizzontale e fatto biscottare nuovamente in forno. Ne consegue che essa presenta una faccia porosa e una compatta. L’impasto, ottenuto dalla lievitazione di farina di grano o orzo con acqua, sale e lievito, viene lavorato a mano per renderne omogenea la struttura e tagliato nella pezzatura desiderata secondo la tradizione locale e lavorato fino alla forma di una losanga.
Con un preciso gesto si premono le quattro punte delle dita perfettamente allineate lungo l’asse della losanga determinando lungo l’asse principale una riduzione dello spessore, che agevolerà lo spacco successivo. La losanga ottenuta viene arrotolata su sè stessa in una breve forma a spirale con piccolo foro centrale e successivamente infornata a contatto con altri pezzi, in piccole palettate di sei-otto forme. Dopo la prima cottura la singola forma, ancora calda, viene tagliata con un filo (“a strozzo”) sul piano mediano orizzontale lasciando sulla faccia dello scorrimento dello spago la caratteristica superficie irregolare. Prima del dopoguerra, la frisella di farina di grano era riservata alle sole tavole benestanti e a poche altre occasioni celebrative.
I ceti meno abbienti della popolazione consumavano friselle di farina di orzo o di miscele di orzo e grano. I due pezzi ottenuti, quello inferiore col fondo piatto e quello superiore con il dorso curvo, si cuociono nuovamente in forno (bis-cotto) per eliminare l’umidità residua della pasta.
Il tarallo e i tarallini sono prodotti che assumono numerose varianti dettate dalla zona di produzione. Principalmente si tratta di un anello di pasta non lievitata cotto in forno. L’impasto base è composto di farina, acqua, olio e sale. I biscotti tagliati sono uno dei prodotti dolci da forno pi ùsemplici ma più buoni. L’impasto può essere semplice o si possono mescolare mandorle tritate – ottenendo la variante che a Prato è chiamata “cantuccio” e che si mangia inzuppato nel vin santo – o cacao. La pasta di biscotto viene adagiata in grosse strisce nelle teglie e a metà cottura viene affettata in tanti pezzi che sono appunto i biscotti. Il profumo di arance o limone o vaniglia può essere da quel che si sceglie per aromatizzare.
La focaccia tipica pugliese è un prodotto lievitato da forno tipico della Puglia e diffuso specialmente nelle province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, dove la si può trovare abitualmente nei panifici. Trattandosi di un prodotto della tradizione, la ricetta, tramandata di generazione in generazione, presenta numerose varianti, per lo più su base geografica. Nella sua versione più tipica, la base della focaccia si ottiene amalgamando semola rimacinata, patate lesse, sale, lievito e acqua così da ottenere un impasto lievitato piuttosto elastico, che va condito e cotto, preferibilmente in forno a legna, ponendolo in una teglia rotonda ben unta con olio di oliva.
L’olio viene anche versato sulla superficie della focaccia insieme al condimento. Circa quest’ultimo, che va posto sull’impasto inderogabilmente prima della cottura, è possibile distinguere almeno tre varianti tradizionali:
– La focaccia per eccellenza, che prevede pomodori freschi e olive baresane;
– La focaccia alle patate, che prevede il ricoprimento dell’intera superficie superiore con fette di patata spesse circa 5 mm;
– La focaccia bianca, condita con sale grosso e rosmarino.
Una curiosità per chi abita a Grottaglie è stata quella di cercare di scoprire che derivazione ci fosse tra la professione del fornaio e alcuni cognomi diffusi. Il cognome “Fornaro” – assai diffuso a Grottaglie – proviene della penisola salentina, con altri ceppi al centro sud e in Piemonte. “Furnari” dovrebbe essere specifico della Sicilia orientale, “Furnaro” invece – estremamente raro – sembrerebbe del ragusano. Tutti questi cognomi derivano dal vocabolo medioevale fornarius o fornaro, stante ad indicare il mestiere di fornaio, cioè l’addetto o il titolare di un forno. Esiste poi “Fornaio” che è specifico di Martina Franca (Taranto), che deriverebbe, direttamente o tramite una forma ipocoristica (modificazione fonetica che in genere consta di un accorciamento della parola), dal termine fornaio, indicante probabilmente il mestiere dei capostipiti della famiglia che ha dato origine al proprio cognome.
Il testo che segue risale alla prima meta dell’800 e da l’idea della procedura per panificare
La farina
Il frumento, generalmente, si conserva meglio della farina; quindi ogni volta non se ne deve far macinare che una quantità proporzionata al consumo di un mese, o poco più. Una buona farina di frumento deve essere molle al tatto, di un bianco leggermente giallognolo, aderente al dito quando vi s’immerge, e rimanere come in pallottoline senza polverizzarsi immediatamente se viene compressa in certa quantità nel palmo della mano.
Quella di seconda qualità e meno bianca, e cade in polvere comprimendola tra le dita. E’ poi d’infima qualità quando ha un color giallo-sporco e vi si vedono entro come tanti puntini grigi. Nei paesi dove il frumento non costa troppo, le famiglie non si servono che di esso per fare il pane: ma in altri questo viene fatto mescolando insieme le farine di frumento e di segale, nella proporzione di un chilogrammo per al massimo un chilogrammo e mezzo di farina di frumento.
Si è tentato piu volte – in tempo di carestia – di panificare insieme colla farina di frumento, o di segale, quella di granoturco, il riso cotto o le patate ridotte in farina: ma queste sostanze mal si prestano all’uopo, e non offrono d’altronde alcun vantaggio reale. Sarà dunque più proficuo il consumare queste derrate nel loro stato naturale, che sciuparle in vani tentativi.
Il lievito
Il lievito, o fermento, e un pezzo di pasta serbata dalla precedente panificazione, e composta colle raschiature della madia, che vengono impastate con un poco d’acqua fresca ed una piccola quantità di farina, in guisa da ottenerne un insieme alquanto duro ed uniforme. Cosi preparato il lievito viene conservato in un angolo della madia stessa coperto da poca farina, od anche in un vaso di terraglia, dopo averlo avvolto in un pezzo di pannolino, sino al momento di doversene servire.
Il giorno precedente a quello in cui si deve cuocere il pane, si ammucchia da una parte della madia la quantità di farina abburattata che si vuole panificare; poi si toglie al lievito la crosta che vi si e formata, e si mette il rimanente in un buco fatto apposta nel mezzo della stessa farina: allora, con acqua, tanto più calda quanto più fredda sia la stagione, si intride e s’impasta col lievito una porzione della farina che lo circonda, nella proporzione di un terzo della totalità nell’estate, e della meta nell’inverno, indi si lascia il tutto in riposo.
La fermentazione, che a poco a poco comincia, viene eccitata, allorché la temperatura e fredda, coprendo la detta pasta con un pannolino, il quale si può prima scaldare. All’incontro, nella stagione calda, conviene rallentare tale fermentazione lasciando scoperta la pasta in luogo fresco. La quantità di lievito che occorre per la panificazione, non si può determinare con precisione, variando a seconda delle farine e della temperatura: ma pel solito se ne adopera da 10 a 20 grammi per ogni chilogrammo di farina che si vuole impastare.
Poiché la prima porzione di pasta che si sarà formata col lievito e con parte della farina – come abbiamo detto sopra – giunga al grado voluto di fermentazione, occorrono nell’estate da 4 a 5 ore, e da 8 a 12 nell’inverno. Questa pasta, cosi lievitata, raddoppia quasi di volume, prendendo una forma gonfia e rotondeggiante; essa manda un odore vinoso gradevole, diviene elastica, respingerla la mano con cui si preme, e se un pezzetto di essa di [sic] gettasse nell’acqua, dovrà galleggiare.
L’impasto
Venuto il momento di impastare il rimanente della farina gia preparata, si comincia a fare sciogliere del sale in poca acqua tiepida – 5 o 10 grammi di sale per ogni chilogrammo di pasta – e con quella si stempera il lievito, aggiungendo poi a poco a poco altra acqua e nello stesso tempo incorporandovi successivamente tutta la farina, coll’avvertenza di non formar grumi. Ottenuta cosi una pasta di giusta consistenza, questa viene ben bene manipolata, battuta, compressa col pugno delle mani. Quindi, distesala sul fondo della madia, la si ripiega su se stessa, cosi di seguito per 25 o 30 minuti, in modo che tutta quanta riesca assimilata ed uniforme.
L’impasto non dev’essere né lento, né precipitato, ma l’operazione deve eseguirsi regolarmente e senza interruzione. Compiuto l’impasto, se la stagione e fredda, si lascia riposare per una mezz’ora la pasta sopra di una tavola in legno dove vi sia una temperatura mite; nella calda stagione invece si procede alla divisione della pasta stessa per formarne i pani, del peso che sarà determinato tenendo presente che un pane il quale sorpassi i tre chili difficilmente riceverà conveniente cottura.
Qualunque poi sia la forma che si vuol dare ai pani, cioè tonda, obvale o anche a ciambella, s’incomincerà sempre col ridurre i pezzi della pasta a guisa di pallottole, alle quali poi si darà la forma desiderata, maneggiandole opportunamente, e spargendo sulla loro superficie un poco di farina. Fatti i pani, si mettono successivamente sopra di un’asse, una tavola o appositi panieri, guarniti di grossa tela, e si lasciano per qualche poco esposti all’aria se d’estate, od in vicinanza del forno se d’inverno, tenendoli coperti con tela, o pannolano [sic], e ciò perché la pasta abbia tempo di lievitare sufficientemente prima della cottura.
La sola esperienza insegna a conoscere il momento in cui il pane può essere messo in forno. Quando si pesa la pasta, prima di formare i pani, devesi aver presente che la cottura fa evaporare una parte notevole d’umidità, e che questa evaporazione riduce di un decimo i pani di 3 chili, di un ottavo quelli di 2 chili, e di circa un settimo quelli di minor peso: giacché più la massa della pasta e voluminosa, meno umidità ne evapora e quindi minor perdita si ha in peso.