La primavera è oramai arrivata, e un tepore quasi primaverile ha portato grandi e bambini a mettere da parte maglioni e cappotti per godere le carezze di un sole timido ma comunque gradito. Mio fratello e la moglie, lo scorso sabato pomeriggio, dovevano andare a fare la spesa in uno degli ipermercati alla periferia di Taranto, ed avevano affidato i figli ai miei genitori, ma due adulti un po’ anziani ben difficilmente riescono a tenere dietro a tre bambini scatenati, e così – subito dopo pranzo – venni reclutato come baby sitter.
La cosa non poteva che farmi piacere, ho sempre pensato che il ruolo dello zio sia un po’ quello di insegnare ai nipoti (quasi) tutto quello che i genitori ritengono opportuno tenergli nascosto, insomma essere più complice che controllore, ovviamente sempre senza esagerare. Così accettai di buon grado l’incarico e andai a prendere Silvio, che con l’energia dei suoi dieci anni, non vedeva l’ora di uscire di casa ed andare in giro.
Una delle fortune di abitare in una città come Grottaglie è che basta fare pochi passi per passare dal caotico centro cittadino, ingolfato di autovetture, alla calma della periferia agricola, e fu proprio verso la campagna che mi diressi, con l’intento di sgranchirci le gambe e respirare un po’ d’aria pulita. Ci dirigemmo dalle parti della zona 167, facilmente raggiungibile a piedi e ricca di strade che permettevano di osservare alberi e cespugli vestiti dei colori caldi dell’autunno. Qualcuno aveva potato in maniera più o meno abile alcuni alberi d’olivo, e intorno ai tronchi contorti erano rimasti rami e sobbracavaddi, quasi certamente lasciati li a seccare o – forse – a disposizione di chi, munito di camino o forno a legna, volesse raccoglierli per ottenere in cambio combustibile a costo zero.
Tra quei rami ne vidi uno, che colpì la mia attenzione e mise in moto la macchia del tempo e dei ricordi, un ramo a forcella, che mi riportò alla mia adolescenza, e mi fece decidere, d’un tratto, il programma delle ore seguenti. Presi il ramo, lo liberai alla meglio delle foglie e dei rametti più sottili, ed alla domanda incuriosita di mio nipote, illuminata dal brillio degli occhi che solo i bambini hanno, quando intuiscono che sta per succedere qualcosa di interessante, risposi: “Oggi pomeriggio ti insegnerò come si costruisce una fionda. Quando avevo più o meno la tua età abitavo in una zona di periferia che aveva però una serie di vantaggi peculiari: molto verde pubblico, assenza totale di traffico automobilistico, macchia mediterranea selvatica tutto intorno al perimetro dei palazzi…”; l’inizio sembrava aver stregato il bambino, che adesso non insisteva più per tornare a casa a giocare con la playstation, ma mi guardava fisso aspettando che continuassi il racconto.
Credo di aver socchiuso un po’ gli occhi, come per rivedere ancora, Con lo sguardo della memoria, quel panorama davanti a me: “In quegli anni c’erano pochi giocattoli, e tutti molto semplici, un pallone, una corda, biglie colorate o tappi a corona di bibite e birre, eppure erano più che sufficienti per scatenare la fantasia e l’energia di noi bambini ed adolescenti, che infatti rimanevano a casa poco e niente, spendendo tutto il nostro, molto, tempo libero ad arrampicarci sugli alberi, ad esplorare masserie abbandonate, ad ammaestrare cani randagi, a costruire rudimentali strumenti di offesa e difesa come fionde, bastoni, fucili a molla, scudi ed scatenare lotte infinite con bande rivali di caseggiati adiacenti, come i romanzeschi coetanei della via Paal.”
Glissai sulla domanda di Silvio su dove fosse la via Paal promettendo di prestargli il libro e continuai: “Che io ricordi, avevo sempre voluto praticare quelle che poi scoprii chiamarsi “arti marziali”; il mio primo amore – non so se per il cartone animato della Disney di “Robin Hood” o per la androgina bellezza di Loretta Goggi ne “La freccia nera” – fu il tiro con l’arco. Fu un amore mai veramente consumato, se non attraverso manufatti più o meno efficaci, che vedevano le frecce realizzate di volta in volta con rami e canne raccolte e lavorate a pochi passe da casa, o con le stecche metalliche di ombrelli parapioggia ed ombrelloni da mare.
Il risultato era abbastanza rozzo ma tanto terribilmente efficace quanto frequentemente usato nelle disfide di quartiere sopra citate, e ancora oggi mi chiedo quale miracolo abbia fatto si che nessuno di noi ci abbia perso un occhio o anche peggio. L’arco era efficace ed aveva una certa aura mistica ma era, nelle nostre azioni di guerriglia, un po’ ingombrante ed approvvigionabile di frecce con una certa difficoltà e così fu giocoforza ripiegare su armi da lancio più maneggevoli, dal semplice sasso alla fionda a forcella, ed è proprio una di queste che costruiremo adesso”.
Eravamo arrivati nel garage-sgabuzzino-officina in mio padre eseguiva tutti i suoi lavori di bricolage, e finalmente – specie per la pazienza del bambino – era arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. “Ora – dissi – puliremo il ramo dalla corteccia con un coltellino, ed una volta arrivati al legno, lo induriremo essiccandolo sul fuoco”. Presi un taglierino e – con la massima attenzione – lo passai a mio nipote impugnandolo insieme a lui e guidando la sua mano nella delicata opera di pulizia della forcella. Tolti gli ultimi residui di corteccia con una passata di carta vetrata, passammo la forcella sulla fiamma di un bruciatore a gas, avendo cura di non bruciare il legno. Il bambino seguiva i miei movimenti attento e curioso, e non attendeva altro che di ripeterli, mettendo in gioco la sua abilità.
“Adesso che abbiamo ottenuto la forcella – continuai – dobbiamo trovare gli elastici per la fionda. Quasi tutti noi usavamo quelli ricavati da camere d’aria di bicicletta deboli e traditrici, e solo pochi fortunati potevano vantarsi di ben più performanti “molle da armeria”. Trovanno una vecchia camera d’aria, afflitta da rattoppi e sparatrappi, e con pochi colpi di forbice ricavammo due strisce, lunghe venti centimetri e larghe uno.
“Ora facciamo due piccole tacche alle estremità della forcella, per tenere fermi gli elastici e poi li leghiamo stretti con un po’ di spago. La toppa in cui piazzare i proiettili la ricaveremo… da qui!”. Le ultime parole le avevo pronunciato mentre guardavo intorno cercando un vecchio paio di scarpe di cuoio che avevo lasciato da qualche parte mesi prima. Anche in questo caso, pochi colpi di taglierino e forbice valsero a ricavare un pezzo di cuoio tra il tondo e l’ovale, tra i quattro ed i cinque centimetri di diametro.
Dopo aver mostrato al bimbo come fare i nodi allo spago, passai le molle nei due fori ricavati nella toppa, strinsi bene i nodi eseguiti con impegno dal bambino ed annunciai trionfante: “Ecco qua, la fionda è pronta!”, suscitando l’ovvio desiderio da parte di mio nipote di provarla subito.
“Quando facevamo le battaglie contro le altre bande di ragazzi – raccontai – le nostre fionde erano quasi sempre caricate con micidiali olive nere e mature, disponibili in quantità grazie ai numerosi alberi intorno casa. L’oliva aveva la duplice caratteristica di avere un nocciolo duro che faceva male quando arrivava, ma soprattutto una polpa che macchiava indelebilmente dove toccava, testimoniando possibilità di smentita che il colpo era arrivato a segno, condannando la vittima non solo all’esclusione dalla battaglia, ma alla successiva punizione da parte della madre, quando sarebbe tornato a casa con la maglia o il pantalone macchiato”.
Pensai, ma non lo dissi, che all’epoca uscivamo da casa accompagnati da un minaccioso avviso: “ci ti faci male pigghi pure lu resto ti sobbra!”, eppure non credo che nessuno di noi si sia sentito meno amato o abbia mai pensato che le nostre mamme non ci volessero bene; che poi la minaccia servisse a farci stare calmi beh, questo era tutto da dimostrare… così come tacqui, un po’ vergognandomene, delle stragi di lucertole ed altri animaletti, perpetrate per mettere a punto le nostre capacità balistiche; anni dopo, un inconscio desiderio di riscatto, mi fece diventare un convinto attivista della tutela dell’ambiente naturale e dei suoi abitanti.
Presi un foglio di carta straccia, lo ridussi in piccoli foglietti che appallottolai ricavandone delle palline di carta sufficientemente compatte da poter essere usate come proiettile e sufficientemente leggere per non fare danni nel caso di impatto con persone o cose. Disegnai con un pennarello un approssimato bersaglio su un foglio di cartone e mostrai a Silvio come impugnare la fionda, tendere gli elastici, prendere la mira e lasciar partire il colpo. Poche istruzioni ed ancor meno prove furono sufficienti al bimbo per capire in maniera sufficientemente efficace le modalità di caricamento e tiro, ed il mio orgoglio di zio non fu scalfito neppure per un attimo dall’occhiataccia che mi riservò mio fratello quando – tornato dopo la spesa a riprendere i bambini – si vide annunciare con aria trionfante dal figlio che era diventato un campione di tiro al bersaglio.
Ebbi la visione di me che ripagavo i danni subiti da finestre, lampadari e soprammobili, ma niente avrebbe potuto cancellare la soddisfazione di aver trasmesso ad un bambino lo spirito e l’allegria che animava me ed i miei amici alla sua età. Chissà – mi sorpresi a pensare – se quando verrà il momento, quello che oggi è un bambino sarà in grado di insegnare a sua volta questi gesti tanto semplici quanto importanti… mi dissi di si, e salutai tutti per tornare a casa, lanciando un ultimo sguardo beffardo alla playstation; questa volta avevamo vinto noi.