Senza la presenza di Leonard Cohen la canzone – poesia italiana non avrebbe avuto il percorso e la dimensione metafisica e metastorica che ha vissuto e che ha disegnato all’interno dei linguaggi.
Leonard Cohen non è stato un cantautore. Un termine molto kitsh. È stato un poeta, uno scrittore, un autore che ha creato atmosfere musicali e tendenze letterarie – musicali, un creatore di linguaggi tra le forme e le percezioni.
Ho avuto modo di conoscere Leonard tardi, al Foro Italico a Roma nel 2013, (il suo concerto è stato il 7 luglio). Anche se ho spesso lavorato sui suoi testi e soprattutto in un saggio su “Cohen e Pavese: Immensi e tragici”, che resta riferimento per relazionare poesia e canzone.
Ha sempre inserito nei suoi testi il suo vero, il suo esistere, il suo essere nel tempo. Ogni sua testimonianza o tentazione o attrazione o ricerca è stata una sottile penetrazione di vita e di riflessione in un viaggio in cui la comparazione tra tempo e morte ha segnato il suo sentiero di uomo. Mai una riflessione in meno. Sempre una parola in meno. Mai un pensiero leggere. Sempre un pensiero nel solco delle esistenze. I suoi testi sono stati tradotti e cantati e recitati, imitati e copiati, citati e sottolineati.
Certo, Fabrizio De Andrè non sarebbe stato il De André che abbiamo conosciuto con “Suzanne” e con “Giovanna d’Arco”, ma ciò non è mica poco. De Gregori senza la sua Alice avrebbe avuto il successo che ha avuto? Persino Vecchioni è dovuto ricorrere a Cohen.
Vedete, cari lettori ed esperti, Leonard Cohen (nato a Montreal il 21 settembre del 1931 e morto a Los Angelis l’altro ieri a 82 anni) resta il principio di un testo che va recitato e la cui musicalità è all’interno della parola. Ha insegnato a recitare e cantare cercando il ritmo nella parola. Chiaramente è una questione omerica e pre omerica, ma senza la immersione nel testo di Leonard non ci saremmo resi conto che anche nella modernità sarebbe stato possibile dare il cantico e la voce ai linguaggio.
In fondo De Andrè comprende immediatamente questo intreccio e nella sua voce, si pensi anche a “Nancy”, c’è il cantalenare medioevale delle ballate che recuperano il senso della favola raccontata. Cohen è un poeta ma resta fondamentalmente il tragico che attraversa il senso di solitudine e si ascolta come silenzio. Non si lascia ascoltare. Si ascolta. In ogni suo ascolto si vivono rimandi letterari. Rimandi che non sono copiature, bensì assorbimenti di una struttura metafisica che è stata sempre presente nei suoi scritti.
È metafisico è il suo accostarsi ad uno spiritualismo religioso e filosofico che è il buddismo. Ha saputo viaggiare tra le immagini Illuminanti e Illuminate del buddismo senza mai cedere al richiamo di una teologia della perdizione. Pur nella sua esasperante lucidità di accostarsi al tema della morte e del tempo è riuscito ad attraversare le dimensione della assenza e dell’attesa.
I suoi testi, infatti, con gli scritti narrativi, sono una costante messa in scena del pensiero che diventa nicciano sul piano tragico, e sgalambriano in termini di disincanto. Il tragico e il disincanto sono due concetti forti di una filosofia del “malessere” o meglio del “mondo pessimo” nel quale ci si trova a vivere.
Da questo punto di vista c’è un distacco evidente tra la sua formazione e quella dei “menestrelli” italiani. Uso il termine menestrello con grande e positiva ironia perché la vita recitata e cantata con gli istrioni e con i menestrelli è possibile catturarla oltre il bene e il male. Ma in Cohen c’era e c’è stata una formazione non solo letteraria, ma anche filosofica che si è poi trasformata, appunto, nel suo cammino verso il buddismo. Proprio lungo questa via osserva gli Orienti che parlano il linguaggio del silenzio e della luce: “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”. La luce sempre apre le feritoie.
Storie diverse sono nei De Gregori e anche in De André (il più colto dei poeti che hanno recitato in musica). Cohen è parte dell’orizzonte del mondo di Jacques Brel e George Brassens. Poeti che hanno tracciato percorsi lirici – onirici anche in Italia. Parte del cammino di Bob Dylan è dentro questo viaggiare.
Comunque tra quest’ultimi che ho citato e Cohen ci sono trattini da sottolineare. Cohen resta completamente dentro la letteratura e fa della letteratura una trincea per le coscienze. Parlo di letteratura nelle sue varie articolazioni. Brel e Brassen sono dentro la poesia e la poetica è il tutto come con Dylan che, sostanzialmente, trasforma anche i linguaggi espressi dalla poesia francese.
Ma Cohen ci mette dentro la metafisica e quando dice: “Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l’opus della mia vita. Il nostro lavoro è l’unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose”, non fa altro che individuare il pavesiano “mestiere” di vivere nel mestiere di scrivere.
La scrittura diventa la vita e la vita non avrebbe senso senza la scrittura. La sua metafisica è nella famosa frase: “Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l’inizio e la fine di una frase”. Consumare le parole nella indissolubilità è creare la morte della parola. L’incastro estetico di Cohen è fondamentale.
Si pensi che a questo concetto contrappone dei versi potentissimi che recitano: “Se questo è il tuo volere / che io cessi di parlare/che la mia voce sia muta/com’era un tempo,/io non parlerò più/resisterò fino a che/si parli per me,/se questo è il tuo volere”. L’amore, la sensualità, la sessualità, il corpo sono non il guscio della conchiglia. Sono la conchiglia per usare una metafora. Senza la sessualità l’amore è un codice da decifrare in un rapporto tra amanti. L’essere amanti è offrirsi con il corpo e con la passione dell’anima. Altrimenti non avrebbe senso essere amanti.
Il sesso è la conquista del cuore. Ma il cuore non entra nell’anima senza la sessualità. Gli amanti si amano mai con la testa. Si amano con il corpo e con la passione che invade l’anima: la sensualità.
Nel momento in cui la sessualità smette di essere attrazione l’essere amanti diventa vano e diventa altro. Io concordo perfettamente con Cohen e non ha mai avuto reticenza nell’esprimere i concetti di piacere e di morte. Gli amanti muoiono nel momento in cui muore l’attrazione tra i corpi.
Abbandoniamo le ipocrisie e viviamo la vita: “Quando sono furioso,sorrido, imbroglio e dico bugie. Faccio quel che devo fare per andare avanti”. Bisogna pur andare avanti diceva in suo testo Charles Aznavour.
Già, perché la vita è fatta di scrittura per un istrione artista e di sesso, di amore e di contemplazione, di penetrazione di tempo e di pugni alla morte. La vibrazione del suicidio è latente in Cohen, ma bisogna vincerlo con il disincanto. Disincanto!
“Ti ho vista stamattina, sei passata in un lampo, mi sembra di non riuscire ad allentare la presa sul passato e mi manchi tanto. Non c’è nessuno all’orizzonte e noi continuiamo a fare l’amore nella mia vita segreta”. Ognuno di noi ha una vita segreta. Pur nella segretezza ogni tanto bisogna cercare di essere onesti e mai truccare le carte. La letteratura non è il magico labirinto soltanto. È la soppressione delle parole per dare la forza al silenzio di trasformarsi in linguaggio. Leonad Cohen, certo, un maestro. Un maestro sottile nel raccogliere le attrazione e gli amori che fanno della vita la passione del vivere: “Il vero amore non lascia tracce/ Se tu e io siamo una cosa sola /Si perde nei nostri abbracci /Come stelle contro il sole/ Come una foglia cadente può restare/ Un momento nell’aria /Così come la tua testa sul mio petto/ Così la mia mano sui tuoi capelli /E molte notti resistono/ Senza una luna, senza una stella /Così resisteremo noi /Quando uno dei due sarà via, lontano”.
Certo, io devo tanto a Leonard Cohen. Devo, in modo particolare, la consapevolezza di non sostituire mai un linguaggio con un altro. I linguaggi sono il terreno sul quale si poggia l’anima, quell’anima che non può essere vagante e per gli scrittori diventa poesia e cenere. Perché un poeta, e lo scrittore – poeta, sa sempre che “La poesia è la prova della vita. Se la tua vita arde, la poesia è la cenere”.