C’è uno snodo centrale tra la politica di accoglienza e integrazione e le forme antropologiche nei processi immigratori. Non si tratta di un dato che riguarda soltanto la questione attuale. È una dimensione storica che va letta e interpretata nei fenomeni che possono essere definiti etnici.
Ogni popolo ha la sua matrice ereditaria che diventa il vero e proprio linguaggio del volto e dello sguardo in un processo in cui l’antropologia della parola è un indirizzo di comunicazione. I popoli immigrati diventano civiltà estesa nei luoghi di accoglienza.
Da questo punto di vista il fattore etnico (ovvero il fattore E) chiama in causa una questione in cui il raccordo tra il concetto di meticciato intreccia l’elemento migrante con il modello emigrante perché l’immigrato è prima di tutto un emigrante che lascia la geografia autoctona, portandosela sempre in quella sua metafisica dell’anima, per inserirsi nella comprensione di una geografia fisica ed esistenziale, sociale e politica “altra”.
In Italia si è sempre posto un problema di raccordo tra emigranti ed immigrati. Già di per sé l’Italia è un popolo di meticci in un intreccio tra neolitico ed età avanzata. È stato ed è un popolo di immigrati e di emigranti e a sua volta di immigrati di ritorno se pur con una caratterialità diversa rispetto agli immigrati a priori. Le direttrici sono state e sono quelle dell’antico Egeo, del Mediterraneo, dell’Adriatico o degli Adriatici e quindi dei Mediterranei e degli Occidentali americani, Sud – americani.
Il Mediterraneo ha fatto l’Europa così come modello geopolitica, e l’Europa a sua volta si è estesa tra le due direttrici che sono quelle del Mediterraneo, appunto, e quelle dell’Adriatico. Entrambe le direttrici sono inclusive di popolazioni asiatiche e indiane tout court.
Già tra il 1412 e il 1498 Ramon Pané, al seguito di Cristoforo Colombo, sottolineò il significato immigratorio nelle antiche Indie. Colombo inventò un “nuovo” Occidente ed è con lui che l’Europa diventa popolo aperto ai confini moderni. Proprio l’Africa mediterranea e il Sud Africa secondo una versione etnica costituivano “una terra di sentieri abbandonati, di popoli scomparsi, di città scomparse, di tesori abbandonati, di aerei abbandonati” (Alan Landsburg).
Gli immigranti sono, in fondo, dei popoli in fuga. E ciò che lasciano viene ad essere abbandonato creando nella loro stessa coscienza la metafora dell’abbandono che non potrà mai essere colmato da ciò che trovano, da ciò che incontrano, da ciò che ricevono.
Il rapporto antropologicamente fondamentale è quello che si stabilisce tra eredità e migranti. Questo rapporto crea un nuovo legame di civilizzazione che passa inevitabilmente attraverso il fattore E. Sono, per molti aspetti, popoli in fuga. Lasciano una struttura sociale confusionaria e contraddittoria e si avviano verso viaggi della probabilità della speranza. Si insiste sull’integrazione, oggi come nelle civiltà delle interazioni da Ulisse a San Paolo, ma integrazione non significa valori condivisi.
Questo sia per gli immigrati che per gli accoglienti. In questo caso specifico si dovrebbe parlare di valori comprensibili e compresi. Tutto ciò può avvenire soltanto se si offre la possibilità di vivere il linguaggio delle etnie in una visione chiaramente demologia (usi, costumi, tradizioni, lingue nelle comunanze, nelle comunità) che possa legarsi all’antropos (la centralità dell’essere “umanismo” delle civiltà) di appartenenza e ad un etnos che resta radicante.
Ma l’altro snodo che va snodato è di non farli sentire popoli in fuga. L’aspetto culturale è prioritario perché da questo aspetto valoriale si possono individuare gli elementi strutturali che combinano il sociale e l’economico.
Gli immigrati non devono più abitarsi nella fuga, ma devono essere educati al rispetto delle loro tradizioni nelle tradizioni delle civiltà accoglienti. Devono abitarsi nelle eredità e nella realtà. È una questione complessivamente antropologica. Anzi dovremmo sempre più pensare ad una antropologia dell’anima in una socializzazione del quotidiano.