La prima volta in cui ho ascoltato Lana Del Rey avevo da poco superato i vent’anni. Born To Die aveva appena percorso la navata principale del mercato discografico conquistandolo prepotentemente, interpretato da un personaggio fortemente caratteristico nei tratti ed approdato alla scena musicale praticamente dal nulla (il precedente ed omonimo album di debutto non aveva collezionato posizionamenti di rilievo in classifica o particolare notorietà).
Elizabeth Grant irrompe e sbanca, presenta un sound ed un’estetica che occupano uno spazio a sé nell’industria, ispirati alla vecchia Hollywood decadente e viziosa, dal volto oscuro e passato tormentato. La Grant incarna, infatti, nei panni di Lana Del Rey una diva non convenzionale: perfettamente charmante nel ruolo di femme fatale, ma anacronisticamente opposta ai codici di abbigliamento, espressione e composizione delle regine del pop internazionale.
Come poter resistere ad un’artista che si consacra icona a prima vista? Nel suo malinconico vortice di sensualità crepuscolare, Lana Del Rey mette a segno un tiro da tre punti proponendo qualcosa di completamente diverso rispetto all’offerta del momento: una produzione romantica, onirica e lacerante, sullo sfondo di un immaginario statunitense dipinto nella sua vastità di confini ed opportunità. L’America è la conchiglia dalla quale Botticellianamente questa Venere del botox si erge, facendole da madre sempre pronta ad accoglierla e da matrigna compromessa da menzogne e contraddizioni. Uno scenario intrigante, ma desolante, desertico nel ritratto che ne vien fatto: tanto nella spazialità, dove chilometri di terra si popolano soltanto di lunghissime highways e canyon bruciati dal sole, quanto nell’emozionalità, circondandosi Lana di figure prevalentemente maschili e stereotipate in motociclisti aridi e ubriachi al banco di un motel. Un’America solitaria, tanto ingombrante da divenire protagonista a sua volta, cui Lizzy deve parte del proprio successo lì dove gli USA non costituiscono soltanto l’ambientazione del suo racconto, ma anche uno dei principali temi narrativi.
Sulle prime, Lana Del Rey è tanto macchiettisticamente americana che più di così c’è solo un poster della leva militare con lo zio Sam. Ma, spezzando una lancia in suo favore, lo è in tempi diversi da quelli in cui scriviamo, è americana unapologeticamente e non a fine propagandistico, ma per pure esigenze di un copione in cui calarsi e per cui rimanere impressa nei ricordi della popolazione mondiale. La prima sequenza del video di Born To Die la vede protagonista, nuda e divina, innanzi ad un enorme vessillo a stelle e strisce, stessa bandiera di cui fa mantello indossando una maglietta dal logo Budweiser nei fotogrammi di un altro suo brano famoso, Ride. Intitola un pezzo come il più celebre denim, Blue Jeans, nel cui video è distesa in una piscina di Beverly Hills in bianco e nero come una moderna Sue Lyon che, a sua volta nel 1962, ha interpretato Lolita sdraiata in costume. Il singolo Young And Beautiful viene scelto come colonna sonora del remake della pellicola tratta dall’opera di Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, il cui messaggio finale è – neanche a farlo apposta, l’amara presa di coscienza che il sogno americano, seppur luccicante e irresistibile, sia impossibile da ottenere.
Lana racconta e si racconta nella terra in cui è cresciuta, cavalcando l’onda delle stars and stripes come già altri prima di lei (Madonna nella fase Don’t Tell Me; Katy Perry in tutta la carriera), e facendone un tema ricorrente. Ma che in origine si trattasse di una scelta stilistica per sceneggiare il suo personaggio e non di una volontà politica/simbolica è confermato da alcuni elementi che, posti oggi sotto la lente di ingrandimento della coscienza etica, farebbero di lei carne da macello nei salotti intellettuali (primo esempio alla mano, l’indossare un copricapo degli indiani nativi americani per buona parte del video di Ride, gesto che da solo sarebbe sufficiente allo scoppio di un caso di cultural appropriation). Raggiunta la maturità artistica ed ottenuto un condiviso apprezzamento da parte della critica, continuare a portarsi dietro tale bagaglio simbologico e iconografico avrebbe rappresentato non più un semplice esercizio, ma una dichiarazione di intenti, una presa di posizione. Perché essere un’artista nell’America – e nel mondo, del 2019 vuol dire esserlo nel corso dell’amministrazione Trump, nell’era del #metoo e del dibattito morale acceso su ogni fronte della quotidianità. Vuol dire assumere la responsabilità delle proprie parole ed atti pubblici, passati al vaglio dal giudizio collettivo, specialmente laddove la propria esistenza sia costantemente illuminata dalle luci della ribalta.
Se nel 2012 Elizabeth poteva essere ancora acerba nel difendersi e non del tutto padrona della scena, incosciente della portata e del significato del proprio messaggio e di quelli che avrebbe assunto a sette anni di distanza dal debutto, oggi il registro è completamente mutato. Agli inizi del percorso è stata bombardata dai tabloid per il ricorso alla chirurgia estetica ed una presunta incapacità canora, divenuta cavallo di battaglia dei suoi principali detrattori, secondo cui dietro il personaggio magistralmente confezionato ad arte si celasse null’altro che un team di produttori, tecnici del suono, stylist e musicisti in grado di garantirne la sopravvivenza. Senza indorare la pillola, la Grant ha sofferto accuse di inesistente talento e artificiosità.
La verità si dimostra dove non sia una fantomatica “Haus of Lana” a sgobbare dietro le quinte, ma una donna matura e forte delle proprie doti di scrittura e performance. Un essere umano consapevole di essere nato di genere femminile, bianco e nei gloriosi Stati Uniti d’America, con i privilegi e, di pari passo, i doveri che questo oggi comporta. La Del Rey si fa portavoce di un contro-pensiero concreto e sincero, abbandonando sul palco quella stessa bandiera americana che ne era prima coperta di Linus ed identità visuale; tramite Twitter, invita la propria fanbase a scagliare assieme un sortilegio contro Trump seguendo le arti della magia nera; ironizza sulla deriva Make America Great Again di Kanye West nel nuovo singolo The Greatest, tratto dal suo ultimo album Norman Fucking Rockwell, e sulle dichiarazioni più o meno allucinate rilasciate dal rapper di Chicago (Kanye West is blond and gone/ “Life on Mars” ain’t just a song). Ancora, si mette più volte in discussione per la –non- realizzazione di date del suo tour in Israele, sostenendo la causa Palestinese, e si esprime apertamente circa l’opportunità e il buon gusto di organizzare il Coachella nonostante nello stesso weekend drammatici scontri stessero avvenendo in Corea del Nord.
Come prova del nove della metamorfosi in atto, Lana Del Rey ha eretto una carriera stellare su un immaginario patriarcale e nazionalista, conservatore e anti-femminista (il protagonista maschile del video di Blue Jeans è un insensibile James Dean stereotipato nella dominante mascolinità); rispetto a questo si ritrova, oggi, estranea e a disagio. Pur essendosi mostrata quasi politicamente apatica prima del 2016, non ha col tempo soltanto compreso il potere sociale della propria musica, ma la più generale e urgente rilevanza della politica nella vita sua e di chiunque la ascolti, trasponendo in nostalgiche ballate il senso comune di malessere di una Nazione.
Se nelle liriche i temi si sono ramificati ed estesi, Elizabeth ha conservato cristallino e coerente il suono che ne è marchio di fabbrica, fra violini accorati e tempi dilatati, in un’atmosfera perennemente in declino verso l’abisso, ma con una mano tesa in alto in cerca di un appiglio al bordo del burrone. Melodicamente, ogni lavoro della Del Rey non scatena un effetto stupefacente e inatteso sull’ascoltatore, avendolo abituato a motivi piuttosto simili che per comune denominatore hanno l’intensa forza evocativa e magnetica. Come se L’Assenzio di Degas fosse ambientato in un bar buio di East L.A., la solitudine regna sovrana nello sguardo, nella rassegnazione alle miserie cui la vita pone innanzi gli anti-eroi, figure ai margini non salvabili dalla propria dannazione. Musicalmente, il suo canto addolcisce eventi (auto)distruttivi consumati fra le mura di una stanza d’hotel, menestrella dei sentimentalismi amari dei Nighthawks che Hopper vedeva illuminati dalla luce dei lampioni in strada, più che da quella interiore.
Percorrendo un sentiero scosceso, Elizabeth arriva al suo sesto album in studio in cui la narrazione migliora e si arricchisce ulteriormente, rappresentando Norman Fucking Rockwell il suo zenit di scrittura e sonorità (alla produzione Jack Antonoff, alternative guru del pop femminile già al fianco di Lorde e Taylor Swift, come prima Pharrell per l’hip hop o Timbaland nella rinascita di Nelly Furtado). Quattordici tracce dedicate ad uno dei maggiori illustratori della storia americana e voce dei diritti civili attraverso l’arte, avendo disegnato per decenni sulle copertine del The Saturday Evening Post scene tratte dal vissuto reale. Americani boy scout, americani dalle guance rosse di sana costituzione e fiducia negli ideali e valori della tradizione; americani dalla fede incrollabile, di ispirazione positiva anche davanti a tragedie sociali, guerre e devastazioni che emergono in contrasto con la serenità della villetta nel cui giardino giocano a football con i figli.
Lana non innesca una Catilinaria, ma prende atto dell’ipocrisia che la circonda rendendola ambientazione in cui lei ed i suoi personaggi sono immersi. La mediocrità del singolo si concretizza nei suoi fallimenti e, sommandoli a uno a uno per ogni individuo, questi formano la generalità dell’insuccesso collettivo, di una classe media rassegnata alle oscenità in atto e nichilista, disposta a lasciarsi violentare perché convinta di essere condannata ad unico, inesorabile destino.
Elizabeth è una crooner appigliata al microfono che canta croci e delizie, sventure e perversioni di una se stessa edonista ed autocelebrativa, ma lucidamente consapevole della propria miseria. Jessica Rabbit dalla forza demolitrice ed irresistibile, rispetto agli uomini vive un marcato dualismo: minimizzandoli e servendosene come palliativo ai tempi morti (“Why wait for the best when I could have you?” nella title-track), eterni bambini limitati nel poter fare di meglio (“God damn, Man child” o, ancora, “’Cause you’re just a man. It’s just what you do”), eppure allo stesso tempo dominanti e dominatori, cui si abbandona completamente fino alla sottomissione psicologica (“You fucked me so good I almost said I love you”). Immediato il complesso edipico nei rimandi ad una figura maschile tormentata, ma adorata visceralmente, come un padre abusivo di cui cercare disperata approvazione (“Calling from beyond the grave, I just wanna say, ‘Hi, Dad’” in Hope is a Dangerous Thing). Lana è una “Daddy’s Girl” maliziosa e abbandonata, inconsolabilmente ferita e padrona della propria sessualità – della cui indipendenza fa vanto, ma al tempo stesso corrompe cedendo alla ricerca di protezione.
Si mette più a nudo che mai in un diario di esorcizzazione dei propri demoni, rafforzando la propria reputazione autoriale a conferma del volersi lasciare alle spalle un pop mono-dimensionale fatto di sconsolata tristezza, per meglio riconoscersi in una testimone e poetessa dei veleni del reale moderno (“Don’t ask if I’m happy, you know that I’m not/But at best I can say I’m not sad” in Hope Is A Dangerous Thing). L’America è ancora un tema presentissimo e a tinte forti, alcune ballate sembrano essere state scritte per venir suonate sul patio di una casa di campagna in mezzo al grano. C’è la sua California, terra di promesse e teatro dell’inferno (“I moved to California / The Way that I’m living is killing me” in Venice Bitch), in cui racconta l’uso di eroina e il cordone ombelicale con un luogo così maledetto da ricordare le parole di Anthony Kiedis nella L.A. di Unter The Bridge vent’anni fa (“Under the bridge downtown/Is were I drew some blood”). Eroina che ritorna nell’omaggio ai Sublime con la bellissima cover del successo Doin’ Time e nel ricordo di Bradley Nowell, leader della band ska-dub di Long Beach scomparso per overdose all’età di ventotto anni.
Lana parla del dolore che nutre soprattutto per amore: questo è un disco che ridonda di amore, di emozione, di struggente romanticismo letterario (ad un destinatario domanda “Be my once in a lifetime”, nella commovente Love Song). Si interroga se il suo modo di essere non possa renderla ancor più vulnerabile in un rapporto già antitetico con l’altro sesso, alimentato dalla necessità di farsi aiutare per sfuggire ad un fato di completo abbandono e sofferenza (“Would like to think that you would stick around / You know that I’d just die to make you proud”, ancora una volta assimilando la relazione con il genere maschile a quella paterna). Dialettico è il contrasto fra quello che sa che dovrebbe fare perché giusto per stessa, e quello che nel pratico mette in atto, suonando come un ritornello l’uso della frase “I shouldn’t have done it, But” – ad esempio, nel pezzo California. È la Marissa Cooper che, dilaniata da una famiglia troppo malata per poter mai guarire, si consola nell’alcol e in personalità violente per finire schiantandosi in un incidente d’auto sulle note di Jeff Buckley.
Al termine di un viaggio introspettivo trainato fra acque tenebrose come la scialuppa di Caronte, Elizabeth conserva la speranza e chiude il cerchio con uno spiraglio di luce (“There’s a new revolution, a loud evolution that I saw” in Hope is a dangerous thing for a woman like me to have – but I have it). L’ultimo brano del disco porta un titolo che, letto da solo, invita ad ascoltare immediatamente quella traccia prima delle altre, invertendo il flusso dell’album.
E forse è questa una scelta consapevole, quella di finire un percorso di oscurità con la redenzione o, guardandolo al contrario, di scendere in profondità tenendo bene a mente che la fede c’è, ancora, pur se malconcia e calpestata. Definendosi una “24/7 Sylvia Plath” che scrive sui muri col sangue, Lana Del Rey sa chi era e non ne fa mistero (“Monsters still under my bed that I could never fight off”), in una lucida analisi di quello che può e non può fare, per sé e per gli altri. Si guarda dentro e dal catrame estirpa radici: è una bambina che sa di sbagliare, genuinamente innamorata della vita che la maltratta mentre ne ricerca le carezze, ma che continua a guardare un mondo brutale con occhi innocenti. Gli stessi che hanno ammirato le illustrazioni di Norman Rockwell lasciandosi incantare da un sogno americano illustrato su carta a colori, prima di comprendere che questo nasconda, inevitabilmente, una delle molte bugie che gli adulti si raccontano per rendere l’esistenza più sopportabile.