Antonio Franchini è uno dei più originali ed intriganti autori italiani.
La sua capacità di scrittura asciutta e senza fronzoli, la sua abilità nel passare dal personale all’universale senza sbavature ingenue e senza esagerazioni pedanti rende ogni suo scritto un raro esempio di letteratura da gustare parola per parola.
Anche “L’abusivo”, edito da Marsilio nel 2009 conferma questo assunto, e riesce a ricostruire la drammatica vicenda di Giancarlo Siani unendo il rigore della cronaca raccontata con le testimonianze di alcuni di coloro che con il giovane cronista freddato dalla camorra ed una storia familiare a metà tra la grottesca sceneggiata e la commedia neorealistica.
Il caso di Daphne Caruana Galizia, ultimo – purtroppo solo in ordine di tempo – ha riportato alla attenzione della cronaca le vicende dei giornalisti che inseguono la verità a costo di pagare con la vita. A differenza di questi Siani, come racconta Franchini nel titolo del libro, era un “abusivo”, ovvero uno dei tanti praticanti che consumavano ore, mesi ed anni nelle redazioni senza percepire un centesimo, in attesa del miracolo o – più prosaicamente della raccomandazione giusta – che permettesse loro di ottenere l’ambito tesserino da giornalista e la vetrofania da attaccare al parabrezza della macchina.
Sfuggendo alla facile tentazione del riepilogare la mera cronaca giudiziaria, Franchini fa viaggiare in parallelo al racconto del caso Siani uno spaccato delle sue vicende familiari, tra un padre mancato troppo presto e una madre divisa e straziata dal risentimento verso la sua stessa genitrice novantenne (chiamata cinicamente Locusto) e uno zio impotente per ferita di guerra, tanto abulico lui quanto affamata di vita e di cibo lei. Su questo palcoscenico Franchini non si riserva la parte del regista in penombra ma accoglie la sfida di raccontarsi in prima persona, di ricordare la sua Napoli pur consapevole che “chi da un luogo se ne è andato non ha diritto di parlare se non del luogo che lasciò” (pag. 8). Altrettanto sincero sino al limite del cinismo Franchini è rispetto al giornalismo della carta stampata, oggi vituperato ed esaltato a fasi alterne e con sempre meno appeal in termini di fama e guadagno economico, superato da blogger d’assalto e youtuber con milioni di visualizzazioni, tanto da scrivere “Che il giornalismo possa rientrare nel novero delle professioni umanitarie è un abbaglio imputabile forse all’ingenuità di quei popolani nient’affatto ingenui che solo per scarso interesse archiviano in un limbo rispettoso le persone e le professioni con cui non hanno commercio. In napoletano, poi, o’giurnalista è anche, o è solo, colui che i giornali li vende, l’edicolante”. (pag. 11).
Diviso tra Napoli e Milano, con un occhio ad un passato da praticante giornalista ed un presente che di quel famoso tesserino mai conseguito non saprebbe che farsene Franchini rinuncia sin da subito a innalzare l’ennesimo monumento alla memoria della vittima Siani, e si tuffa in un dedalo di contraddizioni e incognite, consapevole che “cambiare è la condanna e il privilegio dell’essere vivi, dell’essere sopravvissuti a coloro a cui una vita più breve ha portato la disgrazia della perdita e la magra consolazione di una limpida coerenza” (pagg. 12 – 13), una constatazione che fa il paio con la memoria che resta ed il tempo che passa, che ti fanno capire che “essere diventato adulto è quando ti sai rassegnare all’attesa, è quando non ti pesano più né un lungo viaggio né una santa messa” (pagg. 20-21) e che ti sbattono in faccia l’amara verità che dire e fare non sono la stessa cosa, e che piaccia o non piaccia “Noi che siamo venuti dopo e che pensavamo di vivere dibattendo idee o scrivendo la cronaca del tempo nostro eravamo meno adatti a lottare” (pag.22).
Che fare allora? Oggi come nel 1985 vale ancora la pena di impegnare ore a cercare notizie e riscontri, testimoni ed evidenze? Il giornalista, oggi come ieri deve scrivere tutto quello che sa, deve ipotizzare anche quello di cui non ha prove ma di cui pasolianamente puo dire di sapere, deve essere convinto che l’esigenza di giustizia deve superare quella dell’informazione e ricordare che “le notizie sono come i gelati. Se le tieni in mano ti si squagliano” (pag. 74) ma non cedere al demone dell’esclusiva e ricordare che la credibilità viene prima di qualsiasi scoop. Come già in passato, con i suoi eroi dolenti, Franchini legge le vicende nel loro aspetto umano, racconta di protagonisti più frenati dalle debolezze che spinti dalle virtù, riflette sul fatto che “Non siamo creature nate per la luce e costrette a brancolare nel buio , ma animali notturni perfettamente adattati al crepuscolo se non proprio alla tenebra” (pag.144).
Al termine de “L’abusivo”, non ci si può non interrogare su chi sia il giornalista oggi e del perché della sua professione; è oramai un “compilatore di giornali” come le donne più o meno in carriera rigorosamente vestite di nero che si occupano dei periodici femminili o c’è ancora spazio per la passione incosciente, se non dei pericoli, quanto meno della precarietà del futuro? E’ ancora possibile, per noi lettori, giudicare uno scritto e il suo autore senza considerare il contesto ambientale in cui è maturato? C’è ancora un futuro per carta e inchiostro, inchieste a puntate, elzeviri e articoli di fondo tra fake news e portali satirici che propongono notizie farlocche imitando nel nome e nella grafica testate dall’onusto passato e dal traballante futuro?
Franchini non da risposte, racconta le sue emozioni e spiega il suo punto di vista, non sale sul pulpito ma si mette di fianco al lettore e gli indica quello che a lui pare interessante osservare, e parlando di un Siani forse troppo mitizzato quanto poco compreso, racconta di una generazione di giovani del Sud che – oggi come ieri – è alla ricerca di un altrove dove realizzare i suoi sogni.