“La vita o si vive o si scrive”, affermava Luigi Pirandello. Una regola che – come tutte – ha le sue eccezioni. Una di queste potrebbe essere forse “La fortuna di essere nati al Sud”, romanzo in cui Ettore Mirelli racconta luci e ombre di un uomo e di un territorio che sono l’uno forma e sostanza dell’altro.
Quanto dell’Autore sia in Francesco Morea, protagonista della storia, non sta a noi svelarlo; di certo i luoghi raccontati sono quelli in cui molti di noi non fanno fatica a riconoscerci. Non mancheranno certo i riferimenti autobiografici, ne sono testimonianza i nomi dei bar riportati nel romanzo, ma sarebbe ben poco volersi fermare alla mera apparenza della trama, volerla sezionare per scoprire cosa è vero, cosa verosimile e cosa inventato. In realtà Ettore Mirelli usa questo romanzo come il proverbiale dito che indica una luna alla portata di ciascuno di noi, racconta di cadute e rinascite, di perdizioni e ritrovamenti, di antiche saggezze e di contingenti ipocrisie. Citando le parole dellAutore, questo romanzo potrebbe definirsi ricco della “qualità delle cose costruite con l’amore di chi le fa per puro gioco”. Un gioco serissimo, come solo i giochi veri sanno essere, di quei giochi seri “capaci di sfuggire al nulla del tempo immobile”, in grado di ammaestrare bambini ed adulti alle regole ed alle gerarchie della vita. Novello Prometeo, Ciccio Morea cerca un fuoco da donare prima di tutto a sé stesso, dubitando che esista una umanità degna di ricevere cotanto dono, o anche solo di apprezzarne il valore. Affronta prove iniziatiche che appaiono tutt’altro: appena laureato in giurisprudenza rifiuta una collaborazione prestigiosissima con principe del foro ma accetta di prestare la sua opera professionale in torbide pratiche di infortunistica stradale, si strugge per una nobiltà che vorrebbe aver avuto per nascita ma si presta alle richieste di un boss della Sacra Corona Unita, cerca l’Assoluto ma non disdegna di accompagnarsi carnalmente con due diciassettenni, suscitando sconcerto e riprovazione in suo padre che – come spesso capita ai genitori – si chiede dove ha sbagliato nell’educare questo figlio così lontano dai progetti di padre e nonno. In una applicazione meridionalistica del principio Taoista del “Wu Wei”, che sostiene che tutto si compie senza che nulla debba essere fatto perché ciò avvenga, Francesco Morea conferma a sé stesso che “bisogna essere forti per rimanere coerenti con la propria natura” anche quando quale sia davvero questa natura non è chiaro perché, come gli spiega il nonno, “a noi esseri umani è dato solo di sognare e desiderare una grandezza che non sarà mai nostra”.
Scorre veloce questo romanzo, tra un omaggio a Evola ed un richiamo a Guenon, senza trascurare una esplicita, feroce e lucida critica al moderno sistema economico ed alla politica finanziaria internazionale che rende i popoli sempre meno padroni del proprio destino. Non ci si lasci però assopire dalla apparentemente declarata bontà del mito del “buon selvaggio”, Ciccio Morea oscilla – non sappiamo quanto consapevolmente – tra la filosofia e la paraculaggine, e se il suo rapporto con il cavallo Caffè riverbera l’intrecciarsi di ataviche energie, il rapporto conflittuale con il padre, al pari della corrente pittorica del Vulvismo da lui ideata, è l’esemplificazione di quanto Freud ed i suoi epigoni hanno sviscerato negli ultimi anni di studi psicanalitici.
Non c’è, in Francesco Morea, l’incosciente spensieratezza del Piccolo Principe del de Saint-Exupèry e neppure la cinica cattiveria dei personaggi di tanti noir passati anche agli onori (?) delle produzioni televisive, incarna piuttosto “l’incorrotto cavaliere del sud. Il libero pensatore ozioso che dall’ozio traeva virtù amando e cambiando il mondo attraverso la lente dell’indolenza”. Un po’ Marchese del Grillo e un po’ Bel Amì, passa dalla lettura di Kant alla ricettazione di Tizio, dalla poesia di Neruda alle sanzioni amministrative di Caio, diventando strumento del reale attraverso la ricerca dell’ideale. Come è giusto che sia, ad ogni caduta segue una rinascita, e Francesco Morea trova la sua Luce in una delle istituzioni più vituperate e meno comprese della nostra società, ad ulteriore conferma che è sempre l’Uomo a fare la differenza rispetto allo strumento impiegato per raggiungere i suoi traguardi. Ambientato in una “terra maledetta e fatata, fatta di bellezza ed orrore”, questo racconto è uno specchio in cui ciascuno di noi può leggere – con perplessità o invidia – poco o tanto del proprio carattere e della propria storia e così, chiudendo come un uroboro questa recensione, possiamo ben dire che Francesco Morea è sicuramente “uno, nessuno e centomila”.
“Quest’opera nasce dalla intuizione di comprendere il Sud dell’Italia e la cultura del suo popolo alla luce del concetto di indolenza, tipico della controra estiva che rappresenta il cuore intimo e la atmosfera subliminale di un popolo lento, refrattario alla integrazione con culture differenti, le cui virtù ed i cui vizi nascono appunto da questo fatalismo legato alla terra ed ai suoi ritmi lenti. Il Sud descritto in quest’opera è un luogo dell’anima isolato dalla Storia e dalla geografia, un luogo di passaggio degli eventi, che dagli eventi rimane immune nella propria essenza. In questo contesto, a metà strada tra realtà ed immaginazione, si sviluppa la storia di Francesco Morea, un antieroe moderno, le cui abitudini di vita sono perfettamente radicate nel suo territorio di origine, la remota provincia del Sud, e la tradizione di una antica nobiltà terriera, inutile e indolente, ma romantica e profonda nel proprio modo di vivere la vita e il mondo. Francesco Morea è un uomo indispensabile nella propria inutilità, perchè ci riconduce al ritmo lento della nostra essenza, totalmente immune dal dinamismo della vita moderna, anche se nel corso della narrazione si assiste ad un coinvolgimento di questo signorotto di paese, nelle dinamiche della contingenza. Se quindi all’inizio dell’opera Francesco è una monade perfetta ed armonica, perfettamente centrato nel tempo e nella tradizione, con l’inizio della professione forense viene trascinato nelle contraddizioni del Sud, tra mafia e società civile, accetta il benessere materiale in luogo della originaria armonia spirituale, e trova il proprio riscatto alla vacuità del presente attraverso l’ingresso in massoneria, via esoterica questa dove conoscerà Carla dando vite alle premesse del futuro. Questa che avete tra le mani è una storia antica e moderna al tempo stesso, la storia di un popolo raccontata attraverso la vita di un uomo che è sintesi di tutte le virtù e le miserie del più autentico Sud, un Sud che non può essere compreso nell’ottica del capitalismo globalizzato, ma che deve essere amato per quello che è, un luogo brullo e selvaggio nella propria essenza, crudele ed ingiusto, aspro e tragico, ma incommensurabilmente romantico per chi sia capace di coglierne la sua struggente bellezza.”
(Dalla quarta di copertina)