Luigi Pirandello ha sottolineato molti aspetti non soltanto letterari, ma antropologici. Un’antropologia che si occupa non solo delle tradizioni, e del valore che ha avuto la tradizione all’interno dei processi letterati e linguistici, ma un’antropologia che si è servita, in modo particolare, sia dell’aspetto etnico sia dell’aspetto demologico.
Mettere insieme questi elementi nell’opera di Pirandello significa anche recuperare un’identità fondamentale, che esula dal punto di vista prettamente storico-critico, ma entra in un’espressione profondamente dettata da una dimensione onirica, in cui il sogno non è il sogno freudiano, ma è un sogno teso e proteso verso una forma archetipale della realtà storica.
In Pirandello non ci sono sensi di colpa nei confronti del padre, del luogo, di altre realtà e di altri personaggi veri e inventati. La dimensione psicologico – freudiana è molto distante, anzi è parte integrante di un relativismo che in Pirandello non c’è. Il legame con la madre non si trasforma, con la morte di lei, in senso di colpa, ma in assenza e presenza e il suo colloquiare è una testimonianza forte.
A testimoniare tutto ciò ci viene in aiuto la visione che è stata data dal film dei fratelli Taviani nel rappresentare una pagina emblematica del viaggio pirandelliano in un testo cinematografico dal titolo “Kaos”. Questo film, che risale alla metà degli anni ’80 (con le musiche di Piovani) mette insieme, proprio in “Kaos”, alcuni elementi principali di un incipit che è nell’opera pirandelliana.
Cercare di capire ciò che i Taviani ha messo in scena permette di leggere Pirandello in una dimensione prettamente simbolica. Dalla dimensione della luna, come archetipo, al “mal di luna”. Il “mal di luna” è anche una dimensione epistemologica, ontologica, mitico – simbolica della luna che cade sulla terra, sulla campagna, sul mare.
Il colloquio con la madre (altra scena emblematica) è di una straordinaria efficacia sentimentale e non ci sono sensi di colpa, anzi si gioca proprio sul vero Pirandello onirico. Il suo colloquiare con la madre e con il legame tra vita e morte è un incastro tra assenza e presenza. Il ricordare il suo viaggio nell’isola di Malta (perché il papà di Pirandello era in esilio in quanto era stato “condannato” dal potere borbonico) offre una stimolante immagine di tempo perduto e ritrovato.
I fratelli Taviani hanno creato un’immagine simbolica del mare, dei luoghi, del colloquiare con la madre sino a dare una interpretazione al racconto attraverso il linguaggio. Un linguaggio non soltanto dialettale, ma profondamente etnico, perché la lingua siciliana, di Girgenti, è una lingua che rappresenta un misto di contaminazioni. Poi c’è uno dei punti nevralgici della simbologia: la giara. “La Giara” è una novella che è stata trasformata in commedia. E’ stata messa in scena nel 1917 (dalla novella alla commedia), ma la messa in scena a teatro ha una sua chiave di lettura che pone in essere un filo che lega la rappresentazione simbolica con la rappresentazione di un immaginario lirico.
Nella rappresentazione teatrale sembra prendere il sopravvento il legame realtà – storia, ma non è così perché i simboli giocano una partita importante, necessaria, per cercare di capire e comprendere un Pirandello calato in una luce demoetnoantropologica, nella misura in cui il distacco semantico diventa anche sinergia con la geografia, con la terra, con il suo paese, con la sua realtà.
Nella “Giara” c’è una visione prettamente simbolica, mitico simbolica, archetipale. Quando l’aggiustatore “magico”, perché sarebbe da definirlo tale, si infila dentro la giara, per “catturare” quel frammento di rottura della giara, e poi non riesce a uscir fuori perché si rende conto che la bocca della giara ha una rotondità che non permette ad un corpo umano di uscir fuori, lì, si consuma un dato prettamente antropologico. È come se la giara non riuscisse a partorire… I simboli sono singolari.
Ritorna la luna che ha bisogno di essere vista e ascoltata, che ha bisogno di un colloquiare con i personaggi della giara. C’è un dettaglio importantissimo che è la danza intorno alla giara. I due attori principali del film dei fratelli Taviani sono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Hanno espresso un’interpretazione sublime.
Quando si fa girare la giara, e il personaggio dentro la giara dice “…Girate fino a quando io non vedo negli occhi la luna…”, si vive una dimensione onirica. Ha l’espressione di un personaggio del mito lo sguardo di questo personaggio di fronte alla luna che dice “…Quant’è bella questa luna, mi sembra un secolo che non la vedo…”.
È come se si vivesse una partecipazione alchemico – sciamanica (ritorna l’elemento sciamanico, in Pirandello, e alchemico).
Tale rapporto è un rapporto mediterraneo, uno scavo all’interno di quei processi antropologici non soltanto culturali ma mitico – simbolici, in cui l’immagine della luna diventa mito accompagnato dal canto siciliano, che rimanda alla cultura araba, a quella cultura mediterranea orientale.
Intorno alla giara, intorno alla figura del personaggio che è dentro la giara, si vive un’interpretazione che è l’interpretazione dell’alchimia del suono, dell’alchimia della danza e dell’alchimia del rapporto con la luna. Vi è poi la danza ruotante intorno alla giara, la quale rimanda a una dimensione arabo – alchemica. Anche le movenze, i gesti dei personaggi, non sono altro che il “passo” in cui la Sicilia, quella Sicilia, si lega con il mondo prettamente mediterraneo, arabo.
La rappresentazione scenica della giara è un’interpretazione fortemente araba. La danza è un ballo tondo, contaminato intorno alla giara. Diventa un canto sibillino che ci rimanda a quella dimensione fortemente onirica. Il sogno interagisce con la cultura popolare.
Qual è la cultura popolare di Pirandello?
Non è una cultura razionalista, ma è una cultura della tradizione legata al territorio, legata alla geografia della Sicilia. Quella Sicilia che ha il canto, il suono mitico e simbolico del legame tra Oriente e occidente. Pirandello è (anche) questo.
Pirandello è sì il grande protagonista dell’enigmaticità dei personaggi, dell’enigmaticità della mancanza di una identità del “Fu Mattia Pascal”, che diventa centrale come profilo nel ‘900, ma è anche il recupero di una identità mediterranea, il recupero di un’identità in cui i simboli sono rappresentativi di una letteratura che non ha pari nella cultura occidentale.
Pirandello, nato in pieno Occidente siciliano e calamitato da questa cultura orientale, recupera queste forme simboliche alchemiche e archetipali. Il vissuto della religiosità non è un vissuto della religiosità in cui c’è la profondità religiosa cristiana, ma c’è la religiosità antropologica dei popoli iniziatici, di quei popoli che si iniziano alle culture pre – omerici.
C’è una scena simbolico – sacrale da non trascurare, sempre vista nel film dei Taviani. Il personaggio che incolla il frammento di questa giara innalza al cielo una piccola giara che è il simbolo sacrale, appunto, di una rivelazione al Dio, al cielo. Il richiamo sufico è evidente.
Pirandello vive l’inquieto sempre, ma si serve di alcune forme esistenziale e letterarie che richiamano un mondo in cui il mito non è soltanto quello greco, ma i richiami e gli echi di una alchimia della cultura sciamanica sono pregni di significato.
La danza intorno alla giara e sotto la luna è una danza propriamente sciamanica con richiami profondamente orientali. Una danza stregata dalla luna e dal canto arabo.
Questo è il Pirandello che va oltre il Pirandello della critica.