Ci fu un tempo in cui il mistero e la magia sembravano legarsi in un unico viaggio oltre il sacro e oltre il mito. Una antropologia della conoscenza si è sempre contrapposta alla religiosità della fede e al religioso del magico.
Figure, personaggi e immaginario sono dentro lo stesso viaggio. Un viaggio che va verso una illuminazione che attraversa i deserti e i mari. I deserti dell’anima e i mari della memoria.
Capita che i personaggi hanno bisogno dell’immaginario per resistere al fuoco del tempo e i falò vengono infiammati proprio per cercare di interporre tra il presente – tempo e il tempo una chiusura persino di immaginario.
Qui è l’errore. Non è la storia che si tramanda. Non sono le verità o le menzogne o le finzioni che si tramandano come se fossero tradizione di un vissuto reale o meno.
Si trasmette l’immaginario. Nel corso dello spazio – tempo l’immaginario si aggrega ad altri immaginari e questi ad altri ancora sino a raggiungere la fortezza di un fatto non vero ma reale. Non vero perché non offre la verità del fatto.
Dirà l’alchimista Zenone: “Noi siamo fortunati perché abbiamo sognato i nostri sogni”. Ed ecco dove sta il contrasto tra il reale e il non reale. Il limite e l’illimite. Reale perché è creduto vero in quanto ancora se ne riesce a parlare. La storia delle ortodossie, delle inquisizioni, delle eresie sono reali perché non si smette di discuterne, ma non sapremo mai fino a che punto sono vere perché intorno si è costruito un tale immaginario che struttura un modus particolare degli avvenimenti.
La leggenda così diventa più reale della verità nonostante si sia complicata in un attraversamento compilativo tra il sogno e il mito.
Come in “Morte dell’inquisitore” di Leonardo Sciascia che risale al 1964.
“Innocens noli te culpare; si culpasti, noli te excusare; verum detege, et in Domine no confide”, ovvero: “Innocente non accusarti; se ti accusi, non giustificarti; rivela la verità, e non confidare nel Signore”, è un inciso che Giuseppe Pitrè ha scoperto in una delle celle del Palazzo “Chiaromonte – Steri, che era la sede della Inquisizione di Palermo.
Sciascia la pone come frase di apertura del suo libro.
Si pensi soprattutto al personaggio di Zenone di Margherite Yourcenar del libro “L’opera in nero”, (“L’Ouvre au noir”), del 1968, dal quale è stato tratto un film nel 1988 dal regista André Delvaux ed è stato presentato al 41° Festival di Cannes.
Si racconta di Zenone, filosofo, alchimista e medico.
Si conclude con un processo inquisitorio, ma Zenone prima del rogo si suicida. Viene accusato di alchimia, di stregoneria, di omicidio e di rapporti contro natura.
Siamo in pieno XVI secolo.
La grandezza e la contraddizione della grandezza. La parola pensante e libera e il pensiero tra le gabbie.
Si legge nel libro della Yourcenar: “Vedi,” rispose Zenone. “Al di là di questo villaggio, altri villaggi, dopo questa abbazia, altre abbazie oltre questa fortezza, altre fortezze. E dentro ogni castello d’idee, ogni casupola di opinioni, costruiti sopra alle casupole di legno e ai castelli di pietra, la vita imprigiona i pazzi e dischiude un pertugio ai savi.
Oltre le Alpi, l’Italia. Oltre i Pirenei , la Spagna. Da un lato il paese di Pico, dall’altro quello d’Avicenna. E, più lontano ancora, il mare, e al di là del mare, sull’altra riva dell’immensità l’Arabia, la Morea, l’India, le due Americhe. E, ovunque, le valli ove si raccolgono i semplici, le rocce ove si celano i metalli, ciascuno dei quali simbolizza un momento della Grande Opera, le formule magiche infilate tra i denti dei morti, gli dei, ognuno con la sua promessa, le folle tra cui ogni soggetto si pone come centro dell’universo.
Chi sarà tanto insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?”.
La consolazione del vero si consuma nel reale immaginario della storia di Zenone inquisito, e nell’inquisitore che muore sapendo che la verità è tutta ancora da compiersi in una rivelazione che si scontrerà con il reale.
Si vivono avventure di ordinarie finzioni nella verità
Il mistero del sogno prende il sopravvento e il sogno è nella eresia della poesia, tanto da dover leggere: “Voi poeti avete fatto dell’amore un’immensa impostura: quello che ci tocca in sorte sembra sempre meno bello delle vostre rime baciate come due bocche una sull’altra. Eppure, quale altro nome dare a questa fiamma che risuscita come la Fenice dalla propria fiamma, a questo bisogno di ritrovare la sera il volto e il corpo che abbiamo lasciato al mattino?”
Ma cosa è la verità? Un feticcio o un idolo? Così: “Mi sono guardato bene dal fare della verità un idolo; ho preferito lasciarle il nome più umile di esattezza”.
Per Zenone tutto può essere detto e contraddetto perché non è soltanto un filosofo, è soprattutto un alchimista che si serve della medicina. Con il cuore degli amanti disamorati può ben considerare che: “La castità, che da giovane aveva considerato una superstizione da combattere, gli appariva ora uno dei volti della serenità: assaporava la fredda conoscenza che si ha degli esseri quando non li desideriamo più”.
Resta il pensiero. Il pensiero è un demone che attanaglia e intreccia le vite: “La maggior parte pensa troppo poco per pensare doppio”.
Forse per questo il senso del proibito diventa maschera nera o oscura con le trame della leggenda nera come questa opera rivolta al nero.
Nel film uno splendido Gian Maria Volontè esprime tutto il fascino del mistero leggendario che si porta dentro il vizio del tragico, della gioia e della morte. Nel libro di Sciascia si consuma anche un processo di “magaria”, come ebbe a dire Garufi, che studiò, appunto, questi fenomeni. Sciascia, studioso di Manzoni, chiama in causa addirittura la “Storia della colonna infame” di Manzoni quando si ascolta: “Se in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggiamento, una specie di disperazione […]. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che sono due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla”.
Perché, in fondo, come si legge nella Yourcenar: “… non esiste accomodamento durevole tra coloro che cercano, pensano, analizzano e si onorano di essere capaci di pensare domani diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto”.
Zenone e la leggenda delle alchimie pur pensando di servirsi della storia deve chiaramente abbandonarla. L’immaginario è nella immaginazione profonda e scavata nella vita, chiosata nel tempo.
Perché in fondo a dirla con la scrittrice: “Temo che voi non abbiate abbastanza fede per essere eretico”.
Il vero e l’immaginario si confrontano con la morte. La letteratura è immaginario che entra nel racconto. La finzione del sublime della letteratura è metafora nell’intreccio tra immaginario e finzione letteraria.
Il reale diventa metafora che dialoga con la morte.
Inquisire? La realtà, la leggenda o la verità?
È impossibile ricostruire tale viaggio. L’immaginario supera il non limite e varca il reale e il vero.