Può un libro raccontare l’intimo di una persona ed aspirare ad essere universale? Può una autobiografia cercare di racchiudere il minimo comune multiplo di una generazione? La risposta è si, con la necessaria chiosa che l’opera è improba se non impossibile.
Ci è riuscito forse “Lolita” o “Il giovane Holden”, giusto per fare due esempi tra i più noti, non ci riesce Francesco Piccolo, con il suo “L’animale che mi porto dentro”, che a sua discolpa può vantare l’aver voluto affrontare un tema tra i più ostici e scorbutici in cui ci si possa imbattere.
Ai maschi eterosessuali cinquantenni, quindi tra coloro che per caratteristiche esteriori più si possono ritrovare in quanto scrive Piccolo, credo il libro susciti reazioni contrastanti; non volendo e non potendo parlare per tutti, mi limito a dire di me, e tanto basti.
Cominciamo dal titolo, e diciamo subito che dopo la querelle di Daniele Luttazzi con la sottile analisi del limite tra plagio e ispirazione, trovare come titolo il verso di una canzone abbastanza nota di Franco Battiato suona come una scelta a metà tra la paraculata sorniona e il deja-vu miope, perché Battiato racconta nei suoi versi di una passione-ossessione per una persona, Piccolo confessa una attrazione carnale generalizzata al limite del “purché respiri”, ipocritamente (?) a metà tra il virile compiacimento e la dispiaciuta ammissione autodecolpevolizzante alla Jessica Rabbit.
Amo la scrittura di Piccolo, amo il suo “Momenti di trascurabile felicità” e “Il desiderio di essere come tutti”, comprendo e finanche giustifico il suo sentirsi “stocazzo” dopo aver vinto il premio Strega, e apprezzo il coraggio nel mettersi in gioco in maniera così intima e scoperta, sino a scrivere delle sue relazioni extraconiugali (vere o immaginate che siano). Ma proprio per questo “L’ animale che mi porto dentro” lascia un po’ di amaro in bocca, sembra in alcuni casi stonato ed eccessivo come l’esibizione dal vivo di una cover band dei Queen dove il cantante voglia strafare e cantare “Bohemian Rapsody” meglio di Freddy Mercury, o come lo scrittore che – più o meno direttamente – si paragoni a Philip Roth.
In molte cose raccontate da Piccolo sicuramente ci si ritrova, da una certa “educazione sentimentale” coltivata con filmetti boccacceschi e cataloghi di vendita per corrispondenza al retro pensiero che come un sistema operativo autonomo porta a scansionare la scopabilità di ogni donna che abbiamo la ventura di incontrare, ma nonostante questo (o forse, proprio per questo…) questo libro di Piccolo suona un po’ ondivago, a volte ripetitivo, in alcuni casi con parti al limite del compiacimento intellettuale (le plurime citazioni del Panopticon, per dirne una), una sorta di excusatio non petita in cui si confessa anche più di quanto si è fatto perché sia chi ci giudica a dirci che in fondo non siamo stati poi così cattivi come crediamo di essere stati.
Zavattinamente abbondante la parola “cazzo”, così come non mancano le complementari “fica” e “tette” (sembra un po’ la classifica delle copertina di “Panorama” e “L’Espresso” che decenni fa compilava “Cuore”) senza essere neppure troppo volgare, “L’ animale che mi porto dentro” sembra un opera parziale e incompiuta – ammesso che un opera simile possa effettivamente essere totale e compiuta quando si è ancora a metà della propria vita – ma non per questo non merita una lettura attenta e partecipata; gli uomini vi troveranno certamente più di qualche momento solidale e diversi spunti per fruttuose autoanalisi, le donne interessanti “backstage” sul pensiero testosteronico che può aiutare a comprendere quanto sovente sia basico e focalizzato l’agire anche del più evoluto dei maschi.
Non un capolavoro quindi, non una straziante confessione o un vibrante “j’accuse!”, ma sicuramente un libro che fa riflettere, a volte sorridere, con un mestiere che a Piccolo non si può assolutamente negare.