La garrota è uno strumento di tortura e di morte tra i più atroci. utilizzato anche nella civile Europa sino a poche decine di anni fa. Il suo funzionamento è tanto semplice quanto micidiale, è costituita da un cerchio di ferro fissato ad un palo, che viene stretto mediante una vite attorno al collo del condannato, fino a provocarne la morte per strangolamento. Non si tratta quindi si una esecuzione più o meno rapida come per la ghigliottina o l’impiccagione, la garrota permetteva di tenere il condannato in bilico tra la vita e la morte per ore, permetteva di fermare l’esecuzione, liberare il condannato e riprendere il giorno dopo, faceva percepire alla vittima del boia l’imminenza della fine senza sapere quando questa sarebbe arrivata, faceva sentire al condannato che alle sue spalle, invisibile ed implacabile, c’era qualcuno che decideva della sua vita e della sua morte.
Ecco, l’ inquinamento della provincia jonica io lo vedo così, come una garrota che lentamente ma inesorabilmente strangola un territorio ed una popolazione, consapevoli e incapaci di reagire, uno strumento di morte manovrato da boia invisibili ma conosciuti con nome e cognome, che spietati decidono come e quanta “morte” debba essere somministrata giornalmente a chi ha la ventura di vivere a Taranto e provincia. Questa garrota strangola tutto e tutti, la sua vite implacabile stritola acqua, aria, mare e pascoli, case e sottosuolo, uomini e animali, anziani e neonati, uomini e donne, senza favoritismi e senza pietà.
L’inquinamento del territorio jonico è enorme come una montagna, e come una montagna può essere percepito nella sua intierezza solo osservandolo da sufficiente distanza. Se si è alle falde dell’Everest si vedranno solo rocce e neve, non certo la maestosità della montagna del suo complesso, così a Taranto pare che quasi nessuno possa (o debba, scegliete voi il verbo più adatto) capire davvero cosa sia questo mostro spietato, questa Idra multiteste, questa immondezza umana, – troppo umana – che decide del destino della vita di centinaia di migliaia di persone.
Si, perché pare che chi a Taranto e provincia possa (o debba) fare qualcosa quasi caschi dalle nuvole, non veda che un po’ di polverina irritante come quella di carnevale, qualche fumicello variopinto, vispe fiammate e entusiasti boati come per la festa del santo patrono, ironiche puzzette a sprazzi, qualche rudere millenario distrutto o occultato che tanto è inutile e brutto e pochi coliformi in gita aziendale perché in fondo il turismo è la vocazione del territorio; paiono tante mamme amorose che alle giuste reprimende di chi si veda omaggiato dalla urina del loro infante ribattono: “Ma è acqua d’angelo!”.
Per avere una idea più chiara, per vedere questa montagna bisogna allontanarsi, allargare il campo visivo, andare a consultare i registri e i siti internet di ARPA, ISPRA, EPA, E-PRTR e via acronimando, farsi una cultura di termini tecnici, formule chimiche, tassi di sostenibilità e leggi, direttive, decreti, raccomandazioni e sentenze di legge, guardare alla riconversione genovese e sognare un altro destino per le acque del Mar Grande e del Tara, diventare giocoforza familiare con termini astrusi come diossina o percolato, benzoapirene e nanoparticelle.
Sempre più è il cittadino che sente sulla sua pelle e nella sua gola la necessità e l’impellenza di liberarsi di questa garrota che si stringe sempre di più sul suo presente e sul suo futuro, sempre di più è il cittadino che si muove, si informa, agisce, denuncia e sollecita, studia ed informa.
La montagna è grande, enorme ed impassibile, sembra dire a quei pochi che tentano di opporvisi “io c’ero prima che tu ci fossi, io ci sarò quando tu più non sarai” e – se avesse una bocca – forse sorriderebbe cinica e beffarda. Di certo una bocca, e non solo per sorridere, la hanno i tanti che da questa montagna cavano sostentamento, l’operaio con un tozzo di pane ed altri con ben più ampie prebende.
La montagna è grande, enorme, e non saranno certo in pochi a poterla scalare e vincere, quei pochi che oggi lottano contro industrie e discariche, arsenali e depositi sono il sasso che potrebbe innescare la valanga, ma chissà. A quei pochi ha fatto da contraltare – fino a un paio di anni fa – una società muta e sorda, per ignavia o convenienza, dove c’era chi difende la poltrona e le annesse gratifiche e chi si dannava per il rinnovo di un contratto integrativo tutt’altro che deciso, insieme a chi non sa e a chi non vuole sapere, intanto la garrota si stringeva e la montagna incombeva, e sembrava già troppo tardi.
Pochi mesi fa il bubbone è scoppiato, con le inevitabili conseguenze: lavoratori contro lavoratori, politici che promettevano tutto e il contrario di tutto, istituzioni che d’improvviso scoprivano cosa avrebbero dovuto già fare da decenni, una magistratura che si è assunta l’onore e l’onere di supplire alle carenze di uno Stato che poco meno di vent’anni fa (s)vendeva l’Italsider che aveva un attivo di bilancio di 500 milioni di lire. Qualche giorno fa il Consiglio dei Ministri ha approvato il piano ambientale dell’Ilva ed è un altro, piccolo forse, ma importante passo per cercare di fermare quella implacabile garrota che già troppi morti ha sacrificato in nome dell’ingordo profitto di pochi e del complice menefreghismo di troppi.