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Il secolo scorso (detta così fa impressione, ma si trattava di qualche decina di anni fa) della televisione si disse che permetteva a parecchi milioni di persone di ridere insieme della stessa barzelletta e tuttavia di sentirsi soli. Dalla “supremazia” della televisione – allora considerata, a torto o a ragione, una “cattiva maestra”, sono passati pochi lustri e molte rivoluzioni tecnologiche, che hanno profondamente cambiato il modo stesso di comunicare ed hanno reso sempre più breve ed effimera la vita degli strumenti e dei media impiegati.

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Chi ha memoria dei modem a 56 Kb/sec e delle connessioni pagate a minuti di collegamento ricorderà le mailing list e le BBS, fenomeni quasi completamente sconosciuti ai ventenni odierni. Poi fu la volta delle chat e dei forum, dei myspace e dei blog personali su Splinder, poi l’avvento dei social network, Facebook in testa.
Oggi si assiste ad un’altra rivoluzione, l’ennesima: i social perdono colpi e la comunicazione diventa sempre più “visuale”; tramonta Facebook e sorge Instagram, si potrebbe dire in soldoni. Chi frequenta la Rete lo avrà notato, e le analisi degli esperti non fanno che confermare la percezione empirica: oggi solo il 34% degli utenti posta contenuti sul social network (meno 50% rispetto ad un anno fa) ed è il 37% (con un calo del 59%) a condividere le proprie foto. A differenza di quanto avveniva sino a pochi anni fa, Facebook ed i social in particolari vengono utilizzati sempre meno per condividere il proprio quotidiano e sempre più come una sorta di “diario” dove registrare il proprio “come eravamo”, tendenza peraltro affiancata dalla opzione di FB che periodicamente ci propone di ripubblicare i nostri post vecchi di qualche anno.

Soprattutto i più giovani, quelli più attenti alle nuove mode o forse solo meno legati a strumenti conosciuti, si rivolgono ad altri media; in primis il già citato Instagram e il semplice WhatsApp (piattaforme peraltro diventate – entrambe – di proprietà dello stesso Facebook, che pare quindi aver ben compreso il consiglio: “se non puoi batterli, fatteli amici”). Si discute e si discuterà molto delle cause e degli effetti di questi cambiamenti, e non sta certo a noi fornire un giudizio sulla questione, quanto piuttosto osservare come questo macrofenomeno si riverberi in quella che una volta veniva chiamata la “real life” (come se quella fuori dalla Rete fosse una vita “altra” rispetto a quella social), ovvero come il comportamento espresso sui media digitali trovi esatta corrispondenza nell’agire quotidiano, cosa di cui semmai ci dovrebbe stupire il contrario.

Cala la condivisione di contenuti propri mentre aumenta il numero di iscritti a Facebook, un utenza sempre più “guardona”, che dissemina a pioggia critiche e “mi piace”, prontissima a condividere altrui campagne di sdegno e bufale al limite del grottesco, ma che sempre meno si mette in gioco in prima persona. La foto del bimbo annegato sulle spiagge turche genera lacrime e commozione, stessi sentimenti provocati più di vent’anni fa dall’immagine di un bimbo africano vicino ad un avvoltoio. Amarezza e rabbia tanta, fatti ed azioni concrete forse un po’ meno… anche noi, come lo Stato cantato da De Andrè, ci indigniamo e ci sdegniamo per poi gettare la spugna con gran dignità.

Comunicare non è facile, e più lo strumento è (apparentemente) semplice e più è necessario saperlo impiegare bene; le esperienze delle scorse elezioni amministrative e quelle – più recenti – delle regionali, fanno temere che cresceranno come funghi – e più o meno in buona fede – gruppi di sostegno a candidati, movimenti e partiti che punteranno sempre più alla “pancia” che alla “testa” del potenziale elettore; un elettore che, in cuor suo, pensa sempre più che prima e dopo il fatidico segno di matita sulla scheda elettorale la politica non sia più affar suo, così come il suo compito termina una volta cliccato “mi piace” sulla ennesima protesta contro il veterinario cacciatore, la pagina pro e contro le vaccinazioni infantili, il vitalizio ai politici decaduti o la legittimità o meno di sparare ad un ladro. Cliccato il asto giusto la coscienza è tacicata e si può tornare a giocare a Candy Crush o a Ruzzle, giochi gratuiti per l’utente ma che valgono milioni di dollari, mentre la strausata Wikipedia fatica a trovare chi le doni anche solo pochi euro a fronte di un servizio gratuito e – pur con tutti i suoi limiti – obbiettivo.

La nostra civiltà ha tra i suoi fondamenti il confronto e la partecipazione; avveniva nelle agorà elleniche, avveniva nel Foro romano, avveniva nelle piazze e nei viali dove ogni sera ci si ritrovava a passeggiare ed a scambiare commenti, opinioni e pettegolezzi. Oggi si va sempre più verso una comunicazione più fredda e meno partecipata, in cui lo strumento non unisce i soggetti ma li separa quasi come una sorta di camera stagna che, se da un lato permette di ovviare alle distanze fisiche (e non solo…) di tempo e luogo, dall’altra rende sempre meno empatico lo scambio, se ancora di scambio si può parlare, di una comunicazione che sembra oramai smentire la sua stessa etimologia.
Sempre più spettatori e sempre meno protagonisti; sempre più persone pronte a riprendere con il cellulare un crimine o un disastro e sempre meno pronti ad agire concretamente “qui ed ora”; sempre più orgogliosi di affermare “Io c’ero” e sempre meno titolati nel testimoniare “Io ho fatto”. La campana di Hemingway suona per tutti noi, ma sempre di più cercano di scoprire di quale melodia si tratti consultando Shazam.

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