Il Mediterraneo è una metafora di passioni di colori. Custodisce i destini degli Orienti e degli Occidenti. L’arte è lo specchio delle maschere che nascondono e rivelano. Il tempo dell’arte, nei percorsi di una visione mediterranea, è un tracciato in cui le visioni toccano il dato oggettivo e, soprattutto, il dato immaginario che diventa funzione antropologica in un legame tra antropos e civiltà. L’arte, quella pittorica e quella scultorea, ha sempre una percezione metafisica.
Dentro questa metafisica i luoghi e i camminamenti costituiscono il magico irrisolto di un viaggiare come in Paul Signac di Antibes, mattino del 1914. Arte e Mediterraneo costituiscono un binomio in cui si compie un viaggio alla ricerca del centro. Ma è, sostanzialmente, un viaggio sempre verso il Sud. Un Sud dell’Anima.
Un Sud dei colori e delle percezioni.
Senza la percezione i colori non avrebbero senso e neppure forma. Il tempo della memoria del Mediterraneo è un tempo sia religioso – popolare che antropologico – estetico.
Penso a Claude Lorrain del Riposo nel paesaggio durante la fuga in Egitto (1640 – 1645 circa), in cui il senso della pazienza è una costante dell’attesa. Oppure a Gustave Corbert quando ci mostra l’attesa della Riva del mare a Palavas (1854).
Il mare come anima con le righe delle onde che vanno oltre e vanno dentro. Penetrano e sottraggono tempo al tempo delle assenze che il paesaggio sottolinea. Il Mediterraneo è una distesa e un golfo.
Osservo la straordinarietà de L’Estacque. Veduta dal Golfo di Marsiglia (1878 – 1879 circa) di Paul Cézame, che diventa un racconto nelle immagini ferme e nell’immaginario non statico. Un racconto che non si ferma nei luoghi ma tocca la “piazza” dei mari come in Jean – Baptiste Olive de L’isola Maire, (1880 circa), nel quale acque e scogli creano piccole isole in un infinito che tocca orizzonti indivisibili.
Come indivisibile è il paesaggio delle palme mediterranee di Claude Monet in Palme nel giardino Moreno a Bordighera del 1884.
Palme che hanno colori autunnali ed estivi tra il giallognolo e il verde con casa e filtri di azzurri, che rimandano a un Pierre Bonnard del Paesaggio a Le Cannet (1933 circa), dove però è un castellato che emerge e si evidenzia con incastro di colori che creano le “forme”.
Il Mediterraneo che tocca le finestre sul “fotografico” si avverte con molta forza in Felix Vallotton quando si specchia in Paesaggio provenzale. La finestra del 1920, dove la finestra apre e lega i due mondi: quello delle case esterne e quello della casa interna.
L’anima si affaccia sulla realtà. Una metafora ricorrente nelle metafisiche del Mediterraneo. Tra questi percorsi artistici (e pittorici nelle loro intrecciature) campeggia quel Paesaggio mediterraneo,che risale al 1907 (circa), di Emile – Othon Friesz, che sembra leggersi come una voluttà di un vento che spinge gli alberi a piegarsi verso le acque e le terre.
In tutto questo qual è la percezione più palpabile?
È quella di un Mediterraneo che non ha linee e neppure limiti.
Il Mediterraneo nella pittura è una “osservanza” della metafora nel tempo delle esistenze dei Sud del mondo. Non il Sud delle civiltà. Ma quel Sud in cui le rocce sono rosse tra l’ondulare del vento che spinge i rossi tramonti proprio lungo le costiere: Rocce rosse ad Agay (punta di Cap Roux) del 1903.
Oppure è un Sud dell’anima del paesaggio la sfumatura tra le acque, gli alberi e la terra in fiore di Théo van Rysselberghe in Punta di Saint – Pierre a Saint – Tropez, risalente al 1896.
Il Mediterraneo dell’arte si fa antropologia degli Orienti che si confrontano con i Sud degli Occidenti come avviene in Joan Miró con Figure di notte guidate dalle tracce fosforescenti delle lumache del 1940.
Insomma si crea un tale intreccio tra arte, estetica ed antropologia tanto da viverlo come una vibrazione di intermittenze di ontologiche appartenenze. In fondo
il Mediterraneo è una ontologica appartenenza altrimenti diverrebbe una mera geografia. La maschera si rivela nello svelare la coscienza della memoria dei camminamenti. Il Mediterraneo è un camminare e un navigare tra le sponde di Ulisse in una costante metafisica dechirichiana: da Arnold Böcklin con Odysseus e Calipso, del 1883 al de Chirico di L’enigma dell’oracolo del 1910.