Il 27 agosto del 1950 Pavese viene trovato morto in un albergo di Torino.
Il suicidio come discesa nel Regno dell’infinito con accanto Tiresia. Senza mito non ci sarà mai poesia. La poesia è la ripetizione di senso. Cesare Pavese. Uno scrittore che ha attraversato le malinconie dell’amore in un vissuto di esistenze e di parole. Lo scrittore che non ha mai creduto nel realismo, e non credendoci, non lo ha mai accettato sia nel linguaggio che nelle forme. La metafora di Leucò è una costante nei suoi scritti.
Uno scrittore osteggiato e, anche, temuto perché la sua poesia e il suo romanzo hanno fatto scuola, ovvero hanno creato degli indirizzi letterari, metaforici e linguistici sul filo di una profonda metafisica in linea con la grecità dell’ulissismo e dei simboli. Non esiste realismo con Pavese. Il labirinto azzera ogni forma di rappresentazione e la vita è uno scavo perso nei meandri infiniti che cercano di comprendere il finito.
Il racconto su Pavese, che porto avanti da decenni, è un percorso in cui gli archetipi della sua infanzia ritornano costantemente a fare luce all’interno della sua inquietudine – foresta. Il mio ultimo “Amare Pavese” (Zaffiri, Pellegrini) è un attraversare il mio “gorgo” per raccogliere la consolazione dei distacchi che, diversamente delle lontananze, feriscono il cammino. Si racconta degli amori e, in particolare, di Constance Dowling, il suo ultimo amore, che darà i versi di “verrà la morte…”. Ma c’è una presenza importante nella sua vita che è quella di Bianca Garufi.
Una presenza forte che va oltre certamente sia Constance che la Tina Pizzardo dalla voce roca. Con Bianca Garufi ha scritto il libro chiave che è l’incompiuto “Fuoco Grande” e a lei ha dedicato non solo le poesie de “La terra e la morte”, ma i “Dialoghi con Leucò”, l’unico libro del Novecento italiano in cui il mito, il mistero e la profezia si incontrano lungo la traccia di una antropologia metafisica. Pavese scese con Leucó nel Regno dei morti per catturare il mito della fine. Trovò lo sguardo di Bianca e cercò di farsi raccontare la fantasia dell’infanzia.
Una originalità straziante che Pavese mette in evidenza attraverso un sostegno mistico e antropologico – umanistico che tenta di percorrere i labirinti dell’anima. Comprese che la nostalgia è un viaggio interminabile e indefinibile. “Fuoco grande” è il falò del tempo. Con “La luna e i falò” riemerge il viso del gorgo e diventa sguardo dentro l’anima. Il volto specchiato è fisicità. Il silenzio è metafisica ancestrale. È scendere nel gorgo muto.
Il Novecento letterario, nella sua complessità, si apre con Pirandello – D’Annunzio e si chiude con Pavese. Si vive un viaggio tra l’estetica e il mito in una saggezza tra Mediterranei e Oceani. La donna è il mito ed incarna la vita e la morte, il mistero e la finzione, la bellezza e l’indefinibile. Ed è Bianca che intreccia il canto dell’esistere e del morire perché in essa c’è la discesa negli Inferi, ovvero il mito che si abita nel rito.
In questo navigare tra la grecità e i miti ancestrali dei popoli primitivi, il linguaggio pavesiano incontra, soprattutto, la differenza tra il senso di disperazione e di tragico, il cui centro è dato dalla conoscenza profonda di Nietzsche, sul quale Pavese ha dedicato molto suo lavoro, e l’umanesimo della nostalgia che diventa viaggio verso il centro – labirinto. È Omero che diventa la definizione del viaggio pavesiano. Leucò – Bianca è la metafora di Penelope – Circe – Calipso. È una terra e un mare. Da qui inizia l’ultima fase della creatività di Pavese. Siamo nel 1945. Si conclude con il suo suicidio e con il dire che il suo dovere è stato fatto. Ha dato poesia agli uomini. Non scrisse per testimoniarsi. Ma per sfidare la morte in ogni pagina. Come con i “Dialoghi” nei quali il dialogare è un confrontare le griglie simboliche che affollano la morte nel vivere. Il mio Pavese non conosce la storia. Si vive scendendo nelle stanze della nostalgia abitate dai porti al centro dei mari.
Cesare Pavese era nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre del 1908. Muore, suicida, il 27 agosto del 1950 nell’Albergo “Roma” di Torino. Sul comodino i “Dialoghi con Leucò”.