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La canzone di Guido Guinizzelli, nato a Bologna nel 1235 e scomparso a Monselice nel 1276, a 740 anni dalla morte, è uno dei punti di riferimento di una lirica che diventa canto in una visione che è onirico – amorosa e diventa il riferimento non solo per Dante Alighieri, ma per tutto il modello stilistico che da Petrarca giunge a Leopardi e dalle liriche amorose di Carducci sino a Pavese.

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Nell’intreccio post ermetico di Ungaretti, Guinizzelli ha una sua presenza, come la si avverte nella ricercatezza linguistica del Pirandello poeta che recupera il senso della parole delle origini nel suo stile. Guinizzelli è un riferimento: “Al cor gentil rempaira sempre amore”. È un riferimento che va oltre lo stesso Dante perché si intreccia con le Rime e con la Vita Nova e si rintraccia nella tentazione sognante di Petrarca. Con Petrarca si apre, chiaramente una stagione, di “chiare e dolce e fresche acque”, in cui l’acqua è la metafora – simbolo di una estrema purezza amorosa che in Boccaccio diventerà sensualità scavata nell’eros. Siamo al conflitto, che mai si risolverà, tra il lirismo medievale, con l’assorbimento delle culture e delle lingue arabo – mediterranee, ben riscontrate addirittura nel Novecento del Mal giocondo di Pirandello, che troveranno nel Poliziano il contatto estremo in un attraversamento melanconico che si ascolta in Guido Cavalcanti.

Guinizzelli il nodo dal quale il verso di Dante diventa tanto gentile sino a recuperare il Guinizzelli di: “Foco d’amore in gentil cor s’aprende/come vertute in petra preziosa,/che da la stella valor no i discende/anti che ’l sol la faccia gentil cosa”. Sì, Dante si innerva in Guinizzelli! Ma c’è il “foco d’amore” che caratterizzerà la passione esuberante di D’Annunzio. Un D’Annunzio tutto proteso verso la “gentil cosa” e la luce delle stelle. Linguaggi che sono antropologie dell’essere.
Una dinamica della parola che si fa espressione lirico – esistenziale, perché il poeta, pur non staccandosi mai dalla supremazia del cercar la parola bella, lega la leggiadria al sentimento. Lettura che adotterà Pavese per i suoi ultimi versi di Verrà la morte anche se lo strumento stilistico e la visione esistenziale sono completamente diverse. Il Guinizzelli crea la Canzone non la poesia come tradizione vuole. La poesia nasce all’interno della Canzone considerata tale dalle letterature che hanno saputo intrecciare le culture Orientali con quelle sicule – toscane. Un linguaggio – lingua nel cor trafitto.

Come in questi magistrali versi in cui Guinizzelli non li recita ma li canta: “Amor per tal ragion sta ’n cor gentile/per qual lo foco in cima del doplero”. E ancora: “Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo/Deo criator più che [’n] nostr’occhi ‘l sole:/ ella intende suo fattor oltra ’l cielo,/e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole”.
Ecco, dunque, gli elementi, in una cerca di profonda religiosità e ammaliante sacralità, che sono strettamente parte integrante di un “canzoniere” che abbandona completamente la filosofia per farsi senso di un “vocalizzo” di un canto che ha la liricità degli echi e della cultura dei trovatori – viandanti. La canzone è come se fosse una preghiera e la si canta quasi in posizione orante nell’ascolto di questo ondulare: “…così lo cor ch’è fatto da natura/asletto, pur, gentile,/ donna a guisa di stella lo ’nnamora”.

Un verseggiare che diventa modello condizionante per la poesia successiva, soprattutto per quella poesia che viene considerata, nelle epoche immediatamente successive, canzone e i Canzonieri sino a Saba cercano di strutturarsi sulla linea di una continuità di un recitativo poetico che diventa essenza della parola – linguaggio e dimensione onirica. Guinizzelli resta il legame al quale spesso bisogna ritornare non solo per interpretare Dante, ma anche per capire lo sviluppo delle poetiche che arrivano sino al tardo Novecento.

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