Siamo al XVIII° secolo e ci avviciniamo all’età contemporanea; Grottaglie continua a vivere anni tormentati e turbolenti, funestati da violenze ed illuminati da lampi di fede che durano ancora oggi: viene introdotta la devozione verso San Ciro.
Questo secolo vede riverberare nei suoi primi anni il clima che aveva contraddistinto il precedente e – come vedremo – ancora grande importanza avrà il tormentato rapporto tra gerarchia religiosa e potere baronale che vedrà tra le maggiori vittime una popolazione costretta tra incudine e martello di due poteri divisi su tutto ma uniti nel loro desiderio di supremazia.
Grottaglie, Evviva San Ciro
Nel XVIII° secolo a Grottaglie viene introdotta la devozione verso San Ciro. A portare il santo alessandrino nella città delle ceramiche e delle uve è uno dei suoi figli più illustri, quel San Francesco de Geronimo che già rifulge di santità in quel di Napoli.
Nel 1709, al termine di una missione popolare, viene posta la prima pietra della cappella del Rosario dove verrà eretto l’altare al martire egiziano, dando alimento ad un rapporto di fede e devozione che unisce Grottaglie ad altri centri di Italia, e non solo.
Fondamentale, in questa opera di fede, è opera dell’arciprete Tommaso, fratello del santo grottagliese, e della congrega del Rosario, che allora ospitava una ampia parte della popolazione e che si assumerà l’onore e l’onere di organizzare la festa in onore di San Ciro.
Tanta è la devozione verso il santo di Alessandria che questo – nel 1782 – viene nominato patrono meno principale di Grottaglie, una sorta di ossimoro che riconosceva la preminenza della Madonna di Mutata come patrona principale.
Di San Ciro e – soprattutto – dell’opera apostolica di San Francesco de Geronimo parleremo in un’altra occasione, dedicando loro la dovuta attenzione, è ora il momento di soffermarci su un altro evento, meno felice ma altrettanto importante.
La rivolta del 1734
Come abbiamo accennato prima, anche in questi anni continua il conflitto tra arcivescovi e barone laico, uno scontro a volte sotterraneo e a volte plateale.
Nel 1734 la situazione degenera e Grottaglie è scossa da una sorta di rivoluzione che infiamma la popolazione e alimenta violenze e proteste. Sui fatti non c’è identità di vedute: alcuni studiosi – come Grassi e Coco – addebitano l’accensione della miccia al dispotismo del barone, esponente di quella famiglia Cicinelli che tanta poca benevolenza pare raccolse a Grottaglie; altri – come il Vozza – ci vedono la longa manus dell’arcivescovo che soffiava sul fuoco del malcontento per aizzare gli animi e indebolire il potere baronale al fine di guadagnare vantaggio nelle proprie pretese territoriali.
La verità forse sta nel mezzo, di certo non la sapremo mai di sicuro perché molti documenti sono andati persi o distrutti. Quel che sappiamo è che – come sempre la storia dimostra – quando i grandi litigano i piccoli ne pagano le spese, e così galera, percosse, esilio e disgrazie toccarono a quel popolo che, illuso, sperava di ottenere con la forza ciò che la legge gli negava. Narrano le cronache che ben duecento famiglie dovettero lasciare Grottaglie e non vi fecero più ritorno, colpite dalla condanna per le violenze che scossero la città. Se ricordiamo che nel secolo precedente si contavano solo 600 nuclei familiari, possiamo ben immaginare quanto questo incise sulla economia cittadina.
Eredità e patrimoni contesi
A segnare le cronache grottagliesi è il governo del barone laico, che in quegli anni è espresso dalla famiglia napoletana dei Cicinelli. Anche su di loro il giudizio degli storici è tutt’altro che unanime.
C’è chi ne deplora senza appello l’operato spietato e insensibile ai bisogni della popolazione e chi vede in questa condanna l’effetto di maldicenze alimentate ad arte da quegli arcivescovi sempre decisi a conquistare spazi di potere.
Lungi da noi volerci infilare in questa diatriba, ci pare però interessante ricordare una vicenda che ci ricorda come e quanto certe questioni di ripetano nei secoli, a testimoniare della perenne esistenza delle miserie umane.
Nel 1730 muore Giovanni Andrea Cicinelli, lasciando erede sua figlia Giulia Maria, di soli sei anni di età. Vista la minore età della bimba, viene nominato tutore il prozio Giovanni Battista Cicinelli che, come purtroppo spesso avviene, sfrutta la sua posizione impossessandosi di fatto dei beni della legittima erede.
Comincia da questo momento una serie di vicende che ricordano una soap opera o un romanzo d’appendice, con liti giudiziarie, corruzione di pubblici ufficiali, spergiuri e false testimonianze – ben raccontati da Giuseppe Vozza nel suo dettagliato “Feudo e feudatari di Grottaglie”; si giunge al 1774 quando il tutore prozio rinuncia al feudo per evitare conseguenze peggiori, la legittima erede Giulia torna in possesso dei suoi beni e si sposa con Giacomo Caracciolo dei duchi di Martina Franca, marchese di Sanfiore, unendo due famiglie in un legame che resterà sino alla abolizione della feudalità.
Si tratta di un momento cruciale nella storia non solo di Grottaglie ma di tutta Italia, ed è quindi opportuno dedicargli il giusto spazio in un prossimo articolo di approfondimento.