Il dibattito tra cultura e scuola, quello robusto con una articolazione di idee, di visioni progettuali, di raccordi tra civiltà e storie dei processi in una società in transizione, sembra bloccato da epoche appese ai fili di un pensiero debole, molto debole. Il dibattito non può essere solo istituzionale e tanto meno non può uscir fuori dalla burocratizzazione di chi gestisce la visione della cultura e la visione della scuola, che definisco tessuto “istruttivo”.
C’è stato un tempo in cui, prima del 1975, i due campi erano strettamente legati da un unico nodo che era quello della Pubblica Istruzione nel cui interno vi erano le Direzioni per la Cultura. I Beni culturali, “strutturalmente” dipendevano dal Ministero della Pubblica Istruzione. Ci volle l’intelligenza e la lungimiranza di Giovanni Spadolini a “spacchettare” la scuola dalla cultura, ovvero dai beni culturali.
Dunque, è dal 1975 che i Beni culturali, scissi dalla Istruzione scolastica ma anche dall’Università (sul piano burocratico e amministrativo), hanno una loro presenza nel contesto nazionale. Beni culturali e ambientali prima. Poi intesi, giustamente, come attività culturali. Ora, meramente in sintesi, con il turismo.
Insomma i Beni culturali sono attività culturale e turismo. Mi sembra una logica conseguenza nel cui interno sono entrati lo spettacolo, il cinema, il teatro, la musica dal vivo. Quindi siamo in piena visione di una proposta di dimensioni prettamente culturali. Credo che sia un punto di riferimento che debba legare la cultura in sé ad una visione con l’economia.
Cultura ed economia è un parametro fondamentale nella temperie del riciclabile, il cui elemento non riciclabile è proprio il bene culturale. La scuola proprio dal 1975 ha assunto altre chiavi di lettura. Basta leggere alcune sottolineature dei vari Decreti o Leggi sui Programmi scolastici che hanno in parte modificato anche l’assetto sia didattico sia l’impostazione metodologica sino alla filosofia della ragione dei programmi della scuola elementare che ha avuto alla base una impostazione ideologica.
Ma il punto è un altro. Quale legame oggi potrebbe sussistere tra cultura e scuola? Già, perché io parto da un antico presupposto, che potrebbe essere quello gentiliano, all’interno della divisione tra cultura e istruzione. Non sono la stessa impostazione epistemologica. Dopo l’invasione donmilaniana si è capito ben poco e la confusione ha retto il gioco della massificazione. Ma fare istruzione non è linearmente fare cultura.
La cultura è progetto e opinione, è saperi incrociati con libertà espressiva. È naturale che si parte dall’istruzione per arrivare alla cultura. Ma è naturale anche che chi deve proporre modelli di istruzione deve partire a priori da una attrezzatura culturale. Sembra un gioco ad incastro. Ma la cultura è altro rispetto ai moduli di istruzione. Si tratta, come dicevo, di un antico dibattito che ha dominato soprattutto gli anni Trenta e Quaranta del 1900. Ma anche l’età giolittiana al cui interno si vivevano le stagioni di un alfabetismo che stava diventando atavico soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia.
La prima Riforma sulla scuola poneva delle cesellature significative, ma fu la Riforma Gentile ad innovare la scuola italiana portandola sulla linea di un vero processo culturale. Scuola e cultura con Giovanni Gentile assunsero un ruolo prioritario sia nel campo delle conoscenze sia in quello della tutela dei saperi e dell’identità nazionale. E questa Riforma venne affiancata da una Legge sulla cultura, ovvero sulla tutela della cultura voluta da Giuseppe Bottai. Insomma è da lì che nasce il binomio istituzionale tra cultura e scuola. D’altronde quelle normative sono state in vigore sino a qualche anno fa.
Nella scuola italiana si è creato più volte un pasticciaccio. Meno in quelle dei beni culturali, il cui Codice, e prima il Testo Unico, ha avuto un ragionamento filosofico e giuridico alla cui base c’era la Legge Bottai.
È possibile creare un confronto tra scuola e cultura? Ancora oggi sono purtroppo mondi separati. Da una parte la cultura è elaborazione di tesi e interpretazione di processi. Dall’altra è la messa in opera delle tesi e dei processi. La scuola non fa cultura ma istruzione, ancora oggi. La cultura elabora nuovi saperi da proporre. In fondo la cultura ha molta più libertà e più spazi operativi rispetto alla scuola che deve attenersi, nel bene e nel male, ad una programmazione stabilita a priori. Ma i programmi vengono elaborati da un dibattito politico – culturale. Basta osservare i libri di testo adottati nelle scuole per rendersi conto.
Ormai queste spaccature bisognerebbe superarle anche perché è vero che siamo in una scuola italiana, ma è pur vero che siamo in un sistema europeo e internazionale delle istruzioni. Così come le culture. Non c’è più una cultura. Ci sono le culture. Ma se questo resta un dibattito in una dialettica tra intelligenze operative lungimiranti è necessario che si apra una discussione vasta con il mondo economico.
Sia la cultura tout court che l’istruzione devono potersi confrontare con i mondi della economia. Da questo punto di vista gli interlocutori per una “scelta” culturale e “istruttiva” non possono che essere gli Istituti Bancari.
Le Banche devono investire, in un tempo di crisi come quello reale dei nostri giorni, nelle culture che diano percorsi di istruzione. Finanziare dei progetti, collaborare assiduamente con i beni culturali, dialogare con le scuole costituisce, il tutto, dei percorsi in cui il dato educativo è essenziale in un raccordo tra costi e benefici.
Gli Istituti Bancari conoscono, sul piano economico ma anche su quello delle risorse, molto bene il territorio nel quale operano, ma sanno anche la tipologia vocazionale di un territorio. L’economia deve recuperare la cultura e l’istruzione. Soprattutto nel Meridione d’Italia, le Banche devono diventare riferimento per un innalzamento del livello culturale.
Dico questo perché credo fortemente nel dialogo tra culture ed economie. In un mondo articolato e guidato dai mercati le culture e le istruzioni sono una “pagella” significativa per una Nazione che deve poter investire sia nel patrimonio materiale sia in quello immateriale.
Quando si parla di managerialità nel campo delle cultura o della scuola cosa significa? Il manager deve poter avere delle competenze sì specifiche sul piano culturale e pedagogico, ma deve anche intelligentemente saper “gestire” una politica economica applicata alla cultura o alla scuola.
Proprio per questo, ormai, accanto agli “operatori” della cultura e della istruzione occorrono gli esperti che sanno investire. Le Banche hanno questa capacità.
Si deve avviare un discorso molto serio e professionale tra gli uomini della cultura e le il mondo bancario. Solo così gli investimenti sulle culture saranno investimenti che contribuiranno ad un legame tra risorse e vocazioni e le risorse saranno l’apri pista per un nuovo modo di praticare promozione e attività, conoscenza e modelli educativi. Il rapporto tra cultura e scuola deve interessare gli Istituti bancari e questi possono giocare, in un tempo come il nostro, un ruolo di straordinaria importanza in termini di qualità e di progettualità. Le Banche sono riferimento per la cultura che ha come elemento fondamentale la produttività.