Quando un attore e un uomo, un uomo e un attore, come Giorgio Albertazzi si assenta dalla vita terrena, la sua vacanza crea una voragine. La crea nella vita di chi lo ha conosciuto, gli è stato amico, gli è stato vicino in alcune parentesi di vita, ci sono state concordanze culturali e letterarie che hanno accomunato i nostri percorsi e i nostri interessi (penso alle “Memorie di Adriano” del quale discutemmo, decenni fa in un convegno: Grisi, Albertazzi ed io). Ma Giorgio non c’è più.
L’ultima volta che ci siamo incontrati è stata alla registrazione di una trasmissione di Gigi Marzullo per Rai Uno. L’incontro che si stabilì e che fu nodale avvenne anche a Taranto quando portò sulla scena proprio “Memorie di Adriano” della Yourcenar in occasione dell’unico originale Magna Grecia Festival, da me voluto, e lui aprì con il suo straordinario monologo con quella sua tonaca bianca.
Era nato il 1923 a Fiesole. Il suo bianco e nero nella prima stagione della televisione lo rese protagonista di storie e di letterature che restano incisi come arcani nella vita di generazioni. Lo aveva conosciuto anche mio padre (giovane della classe 1920, ma uniti da un uguale sentiero ideologico, passando da casa mia, in Calabria insieme a Grisi) e ne aveva una grande stima.
Tutto il percorso mitico dal 1949 in poi è stato nella sua storia teatrale ma anche nel suo vissuto. Il mito come senso tragico e la tragedia come un Cervantes che conosce il palcoscenico, ma sa molto bene cosa si può nascondere dietro la ribalta e dietro ogni scena. Fu un uomo di teatro nella vita e nel teatro e non dimenticò mai di essere un uomo vissuto, ma che sempre si meravigliava sino a raccontarci la letteratura contemporanea.
Dal cinema alla televisione al teatro. Un personaggi che sapeva raccontare il destino e l’avventura. Un istrione il cui inquieto scorrere della vita era il sorriso.
“Il sorriso è il saper cogliere anche il dolore”, mi disse parlando della morte di Francesco Grisi nel 1999.
Amici noi tre in quelle passeggiate notturne di una Roma sfavillante di colori in tramonto. Non smetteva di viversi e di regalarci la sua ironia. Da uno degli ultimi film risalente al 2011 “C’è chi dice no” a “Delitto e castigo”, il bianco e il nero, in televisione del 1954.
Il fatto è che parlare di Giorgio Albertazzi è parlare di una letteratura che intreccia i destini con le allegorie. Il destino di Adriano è il destino della solitudine e della gloria nei popoli e nell’uomo. Dante, Petrarca, Leopardi, Neruda, Eliot, Eluard, Pasternak, San Francesco (I Fioretti) e Amleto letto, interpretato, recitato.
L’uomo Albertazzi è l’uomo di una coerenza letteraria e di una fede culturale attraverso la quale la cultura e la sua formazione sono rimaste nella sua tradizione. Nella sua coerenza ci sono anche i suoi libri.
A venti anni aderisce alla Repubblica di Salò. Ricopre un incarico importante dal punto di vista militare. È tenente nella 3^ Compagnia della famosa “Legione Tagliamento” che giungeva dalla scuola di Lucca. Nel 1945, con la sconfitta definitiva del fascismo repubblichino. al quale aveva aderito con forte convinzione, viene arrestato e accusato di essere stato il comandante di un plotone di esecuzione. Accusato di collaborazionismo. Resta in carcere fino al 1947 e liberato perché viene firmata e applicata la Amnistia Togliatti. Un uomo che non ha mai rinnegato e che ha visto nella sua giovinezza quella primavera che cercava anche mio padre. Un uomo dalla formazione forte e che non è mai traslocato sui carri dei vincitori. Coerenza, nobiltà di idee, dignità, lealtà.
Il più grande attore che è riuscito a portare, interamente, sulla scena quella letteratura che per molti è solo lettura e per Giorgio è stata vita. Ha sempre creduto in quella frase che spesso citava: “Ci sono pochi modi nella propria esistenza di sfiorare l’eternità, uno è il sogno”.
Nel sogno ha creduto sino agli ultimi giorni. Nella fantasia e in quel sorriso che non era maschera ma profonda ironia. Quanti discorsi nelle vie di Roma. Resta molto problematica quella sua frase che fece discutere: “Aveva ragione Benito Mussolini quando diceva che gli italiani sono ingovernabili. Sono impossibili, perché sono individualisti, ma poi nemmeno tanto, perché hanno bisogno di un complice e , aggiungerei, anche di un padre. Sono fantasiosi, ma nello stesso tempo sono completamente indisciplinati”. Si discusse a lungo, e la sua pazienza e le sue pause avevano delle verità mai taciute.
Con molto coraggio aveva detto che una canzone di Vasco Rossi, in certi momenti della vita, vale quando una poesia di Leopardi. Un’intelligenza che soltanto gli uomini liberi possiedono. Un grande maestro, un grande amico, un personaggio unico al di là dello specchio e delle maschere.
Quando la letteratura recita la vita si fa destino. E quando la vita è destino la letteratura scava non solo tra le parole.
Io l’ho vissuto, nelle passeggiate romane, negli studi televisivi della Rai, negli incontri con Francesco Grisi come un grande viaggio nella vita e nel racconto.
“Non dimenticare di raccontare sempre te stesso. Quando non ti trovi, fermati. Arriverà la parola giusta che ti permetterà di raccontarti”, Giorgio mi telefonò dopo la morte di mio padre. Io rilessi quel suo libro “Un perdente di successo” del 1988, che presentammo in quegli anni a Roma. Ma aveva già pubblicato nel 1976: “Uomo e sottosuolo”, un titolo in cui le metafore sono pieghe di vita. Nel 1973: “Pilato sempre” e nel 1953: “La nave dei liberti”.
Dobbiamo sempre considerarci uomini e mai dei: mi disse parlandomi di Shakespeare. Il mio amico un grande maestro. È morto il 28 maggio (2016) a Roccastrada, tra il vento de “Il mercante di Venezia”. Quanti fatti ci sarebbero da raccontare. Tutta una vita. Tutta una storia tra cinema e teatro.