Ci sono etnie che continuano ad essere attraversate dalle indifferenze”. A volte dimenticate. Soltanto il legame tra la letteratura e l’antropologia può scavare in queste memorie.
La cultura istriana è una etnia, ma è anche una questione politica. Ho tanto letto Tomizza. Con me ha viaggiato per lunghe stagione La miglior vita. Negli anni dell’università era diventato il mio punto di riferimento. Ora è la mia meditazione costante con quella sua letteratura che non lascia mai la vita. Ed è entrata nei miei studi ma anche nelle mie pause. Con la sua scrittura, sin da anni antichi, ho sottolineato che la letteratura deve costantemente confrontarsi con i fenomeni etno –linguistici che sono alla base della lettura dei territori e delle lingue.
Perché Fulvio Tomizza oggi è da rileggere anche in una visione antropologica ed etno -letteraria? Ironia e utopia si intrecciano e vengono intercalate da altrettanto incroci di processi esistenziali e processi culturali. Tomizza resta pur sempre uno scrittore di frontiera. Un itinerario narrativo il cui tema centrale è rappresentato dal recupero delle memorie che da memorie sommerse diventano tempo riconciliato. Il viaggio è dentro la diaspora che vivono i personaggi.
Fulvio Tomizza in un racconto del suo ultimo libro, il cui tema centrale, come in tutti i suoi romanzi, resta l’affermazione di una identità e il recupero della profondità delle origini sottolinea con delicatezza ma anche con molta incisività: “… verso quali contrade mi spingevo lungo le vaghe piste della memoria…?”. Un interrogativo che non chiede una risposta ma sottoscrive una valenza metafisica. E sì, perché per Tomizza il senso delle origini, il senso dell’appartenenza divisa o tagliata, il senso dello sradicamento – radicamento assume una funzione problematica ma certamente metafisica.
I racconti pubblicati negli ultimi anni di vita, come testamento da vivo, sono una forte dichiarazione di identità che si esprime proprio attraverso la letteratura. Mi riferisco a Nel chiaro della notte. Tomizza nato nel 1935 nel villaggio istriano di Materada ma la sua patria di adozione diventa Trieste. Muore il 21 maggio del 1999. Ha vissuto e sofferto tutto il dramma istriano. L’Istria come modello storico e linguistico ma anche come dimensione esistenziale. La diaspora, la divisione, le ferite di un dramma che è storico ma è soprattutto esistenziale. Questo dolore è tutto dentro i suoi romanzi e i suoi racconti.
E’ questa la fotografia più efficace che sanguina tra gli scritti di Tomizza mentre racconta le sue storie: “… ora che finalmente abbiamo anche noi il legittimo e sacro proposito di recingere di una siepe e chiudere con un cancello questo giardino che è nostro innanzi a Dio e innanzi agli uomini, ora ci si chiama ladri e ci si contende l’attuazione del nostro sogno col pretesto che nelle nostre aiuole ci sono troppi fiori di altra terra! … Che colpa ne abbiamo? Dobbiamo forse distruggerli, quei fiori, per conservare il giardino?” (da Franziska). Una metafora che vale un processo onirico come espressione letteraria e come motivazione umana. Ma anche in La visitatrice e in La casa col mandorlo
Il paese, i villaggi, le case sono le ombre che camminano nel suo essere. Così le campagne che si fanno rivelazione di sogno. Nel racconto “Riso antico” ci sono delle immagini emblematiche che danno luce e calore alla letteratura oltre che a un significato esistenziale che la parola stessa condensa. Sembra addirittura una proiezione. Un bel pezzo di prosa in cui sembra venir fuori una descrittività ma in fondo è la memoria che assurge a vera letteratura.
Si legge: “il villaggio di case in pietra nel quale penetrai poteva appartenere alla mia provincia come all’altra: gli stessi muri rossastri, le stesse stradine senza nome, identici gli alberi imbiancati di polvere, uno stagno nel mezzo. Ma la chiesa e qualche altro edificio erano di costruzione remota e di qualche pregio; davano un nome inequivocabile a quel paese vagatamente noto ma mai visitato”.
Tomizza ha nel cuore sempre il suo paese. Materada. Nonostante i conflitti in quella Regione, nonostante le lotte e le mai non cessate rivendicazioni lo scrittore è, questa volta sì, il descrittore dei sentimenti delle coscienze e del popolo. Lo scrittore, in fondo, si sente l’interprete della consapevolezza di un popolo che incarna un modo di essere di un tempo e di una cultura.
E in “In visita ai miei luoghi” c’è un’immagine che richiama un passato e questo passato è dentro il quotidiano vivere dello scrittore. Appunto così: “E’ l’eterno tempo di un’Istria povera, lontana, dove la vita sonnecchia perfino nelle case e se qualcuno si azzarda a mettersi su una strada è per portare il grano al mulino; fradicio quanto i buoi o l’asino. All’improvviso mi vien da ricordare che è domenica; se affrettiamo la marcia potremmo perlomeno dare l’opportunità all’amica tutta italiana di assistere alla messa bilingue di Materada”. La lingua diventa dunque fondamentale.
Materada è appunto il suo primo romanzo. Un romanzo la cui dimensione storica viene completamente attraversata da una luce onirica che ci riporta in un viaggio nella memoria ad un paese. Un paese come luogo dell’anima. Un paese che è la metafora di un gioco infinito tra l’infanzia e la maturità. E tra l’infanzia e la maturità c’è questa coscienza del paese che è il vento robusto dell’appartenenza.
E poi L’albero dei sogni dove si vive il contrasto tra l’Italia e la Jugoslavia e Triste diventa un punto di riferimento. Il tutto viene contornato non da una scrittura documentaria o da immagini – ambiente ma da uno stato d’animo che è più vibrante di qualsiasi realtà fisica. Il romanzo è intrecciato da una fisicità e ancora una volta da una metafisicità. Quest’ultima supera sul piano della tensione e sul piano culturale la geografia esterna per dare un segno tangibile a quella geografia della consapevolezza dell’io. Una forma autobiografica che raccoglie il vissuto nel presente che si racconta.
In riferimento a questo romanzo Giacinto Spagnoletti ha scritto: “…Tomizza coglie le sue vittorie là dove egli descrive i sogni, e quelle pagine di carattere onirico non saranno dimenticate”. Il sogno non è una promessa. Sostituisce quella realtà che non riesce a parlare, che non riesce a trascrivere gli avvenimenti, che non riesce a sottolineare i sentimenti. Il sogno raccoglie tutte queste istanze. Ma è un sogno che è dentro la coscienza popolare.
Nel “chiaro della notte” ritornano ad uno a uno i paesi. Si fanno ancora di più memoria e la tematica narrativa sta nell’espressione di un esistere. L’Istria è una voce antica che porta con sé la ritualità di vari processi di civiltà. E Tomizza non fa altro che percorrere e ripercorrere le istanze di un vissuto. Un vissuto che ritorna e oltre a farsi presente si realizza come ricerca.
Tutti i suoi romanzi sono la ricerca nell’avventura di un esistere che ricostruisce, in un gioco di immagini, i ricordi che ritornano e si fanno attesa. C’è sempre una profonda coscienza popolare che inonda il viaggiare dei personaggi. Si pensi a La miglior vita, a Gli sposi di via Rossetti, a Dal luogo del sequestro, a Franziska. Dalla “saga popolare di una piccola patria” come Geno Pampaloni ha definito La miglior vita a Franziska un romanzo dai contorni eleganti, raffinati, metaforici. La metafora come un voler dire l’essenza delle cose nell’essenza dell’esistere.
La storia di un amore nell’intreccio più complessivo di una storia complessiva che riguarda sempre e comunque gli avvenimenti della diaspora, della terra tagliata come si è già detto. La letteratura non può che respirare questi aliti e queste tempeste. Tempeste che toccano la coscienza degli uomini come coscienza di popolo. La religione della Patria è l’etica del radicamento nel bisogno di identità e di appartenenza. E’ questo il messaggio che si intreccia tra le pagine del “diario – vita” di Tomizza.
In Nel chiaro di luna ci sono simboli vaganti. Simboli che si percepiscono, che si dichiarano e che sono occhi puntati sulla “luna”. Il paese come sempre è il riferimento chiave che dà il via ad ogni motivazione. Si aprono e si chiudono le stagioni e il tempo cronologico si intreccia con il tempo dei paesaggi e della natura. Il mistero è sempre un’attesa e i giochi dell’immaginario sono percorsi dell’anima.
Tomizza è uno scrittore che si interroga sul mistero e il mistero è la voce indelebile che penetra quel sogno che è il viaggio nel tempo. Nell’ultimo racconto dal titolo: “La strada del pellegrino” questa cesellatura fa incontrare, in una sola battuta, l’alba e il tramonto. Un silenzio didascalico nell’arcano delle incomprensione ma anche delle viuzze che conducono all’indefinibile. Così: “Riuscii come Dio volle a raggiungere il paesino al bivio, messo lì apposta per indicare ai viandanti la strada da prendere”.
Questo “paesino al bivio” è la metafora di una vita, di una lingua e di una storia o di più storie. Una metafora in cui la storia ha la sua importanza ma la memoria che si lega al sogno è più di ogni altra cosa. Tomizza resta lo scrittore dell’identità sommersa e della nostalgia recuperata. E le metafore percorrono La visitatrice e La casa col mandorlo. Metafore che lasciano tracce di malinconia: “la tristezza della carne, il gusto amaro dell’utopia che finisce e dell’amore che viene tradito”.
Utopia e ironia sono un percorso che guida il senso della scrittura – sentiero di Tomizza. Ma la letteratura è raccolta di pezzi di vita e nella vita la letteratura, per lo scrittore, è costante “esercizio” esistenziale sulle corde del tempo che si fa memoria. Questa memoria che è fatta di elementi di tempo e da processi profondamente antropologici nei quali il senso etno- letterario costituisce una chiave di lettura significativa. Nella vita i paesi camminano nel cuore e nella parola danno un senso. Radici istriane che non smettono di essere radicamento. Una compagnia che che non smette di essere compagna di solitudine e di pensiero.