In più occasione ho avuto modo di parlare della poesia di Francesco Fusca scomparso recentissimamente (Spezzano Albanese, 13 febbraio 1948 – Corigliano Calabro,30 giugno 2016) e le comparazioni, soprattutto oggi che bisognerebbe cominciare a storicizzare i suoi scritti, sono un fatto necessario per un poeta che ha attraversato e studiato la poesia accanto alle altre arti. Recensendo il libro “Origami” feci proprio questa considerazione.
La poesia di Fusca resta prevalentemente una poesia d’amorosi sensi. La mia lettura tra le pieghe di “Origàmi di Versi e Scatti” di Dario Broch Ciaros e Francesco Fusca potrebbe essere viziata dal mio convivere con la poesia della sensualità di Antoni Garcia. Ma ognuno di noi è attraversato dai vizi. Assurdi o non assurdi perché l’assurdo è un tassello dell’alchimia che vive non in mezzo alla via di mezzo, ma è la via di mezzo che il poeta, l’artista, l’indefinibile ascoltano e traducono in emozioni.
“A te amore mio / o per te mio amore / sorridi quando il vento ti cambia il tempo (o quando il tempo fa scivolare le ali di una farfalla / sulle pieghe del tuo seno / e sulle mani resta il colore di un profumo / nascosto tra gli spazi di un silenzio / dimenticato la sera prima / sui nostri corpi / mentre delle nostre presenze / non restava che una sola assenza / dissolta dal mio sguardo dentro i tuoi occhi / e dei tuoi occhi mai smarriti nella marea della tua anima”. Sono versi di Antoni Garcia. Perché questi versi? Ora e ovunque nel pellegrinaggio del nostro esistere l’amore è una pazienza indissolubile di un intreccio che si chiama eros e metafisica.
Questi versi sono di Antoni Garcia, il poeta andaluso – arabo, che è parte integrante del mio resistere, tra le parole e la sensualità del raccontare nel vissuto dell’immagini che diventa Immaginario.
Il nostro tempo è domani nato da un tempo inquieto e debole ed io sono oltre e contro la leggerezza, che tutti potenzialmente possono essere artisti (poeti nella complessità della ferita della parola o fantasisti dello scatto e della composizione della forma nell’immagine).
Tutti potrebbero scrivere? Ma l’artista, è un termine ormai stanco, anche questo, è un alchimista che conosce, inconsapevolmente come uno sciamano, le formule del silenzio… di quel silenzio che fa urlare lo sguardo e gli occhi diventano archetipi di un pellegrinaggio che intreccia l’anima e il corpo.
Qui, in questo testo, l’eros non è il corpo, o meglio non sta nella limitazione o definizione o presenza del corpo. L’eros è nella metafisica, ovvero nell’anima. Mentre il corpo assiste al viaggiare del tempo imprigionando in quell’istante un istante, catturando in un attimo l’eternità.
Perché l’eternità è un attimo. Tutto ciò che striscia intorno alla delimitazione dell’attimo è linguaggio, non parola, non ferita. Non esiste il linguaggio dell’arte. È un paradosso. Esiste l’arte. Non il linguaggio in quanto è l’esercizio che ruota intorno al mestiere di vivere l’arte. Gli “Scatti” e i “Versi” sembrano un raccontare. Ma non sono altro che la morte del quotidiano e la quotidianità nel suo morire rende indefinibile la parola e l’immagine perché attraversano l’esistenza delle emozioni.
L’esistenza delle emozioni è nello spaginare le vite delle pagine. Cosa resta sui nostri corpi dopo il tramonto scavato nell’anima? Cosa resta nell’anima dopo lo stringersi di due corpi in un viaggio che ha il canto dell’onirico? Ciò che si ascolta in questo spaginare il libro di Dario e di Francesco. Il resto è solitudine il resto è nostalgia il resto è perdere quel tempo che pensiamo di ritrovare… Ci sarebbe da dire che in questo libro c’è la “somma” di un tutto verseggiare di Fusca.
Nulla si ritrova perché l’attimo resta indefinibile come nello scatto come nella parola tra le labbra sulle labbra.. Forse è anche qui un tentativo di salvezza… Ma i poeti restano sciamani che conoscono il deserto le porte dei mari i giochi delle esistenze oltre la stessa sensibilità nella sensualità…
La poesia è un tocco che muore nell’immortalità. Sono Origàmi…Intrecci di vita che sono intrecci di malinconia. Ma in Fusca la malinconia non è uno status. È un costante linguaggio la cui parola è fatta di sintesi e armonie. Muore nell’immortalità! Il poeta non può che vivere in questa “disubbidienza”.