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Battete ‘ste cazzo de mani”, urla Henry Pass, vocalist dagli occhi di ghiaccio dal palco dell’NRG di Ciampino, la magica culla dove tutto ha avuto inizio.

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Basta cercare qualche video su YouTube del periodo 2002-2008 per comprendere la portata devastante del Diabolika, un evento che, a livello nazionale, ha determinato un trend di costume e culturale. Per moltissimi ha rappresentato un’inversione di marcia rispetto a quanto di conosciuto nel clubbing fino a quel momento, portando una notorietà imprevista ai generi minimal e tech-house, personificati in quelli che, all’epoca, venivano consacrati come i DJ più forti della scena italiana. In quegli anni ad accompagnare una serata non era soltanto la sua colonna sonora, ma le istrioniche doti di artisti, interpreti, più vicini a domatori del circo in quanto a estetica e portamento, che a semplici presentatori. In questo caso, Lou Bellucci e Henry Pass sono i nomi leggendari.

Il merito del Diabolika è quello di aver raccolto l’eredità del passato, di avere ripreso le fila di un discorso avviato molti anni prima al Muccassassina sotto la direzione artistica di Vladimir Luxuria. In una Roma non ancora colpita dal deperimento della vita notturna, questa festa aveva immediatamente fatto parlare di sé stabilendo un clima esclusivo e comunitario al tempo stesso: selezionato, presentandosi in origine come gig principalmente gay-friendly, ma seducente, aperto ad ogni forma ed espressione, che innescava il desiderio di inclusione. Luxuria lavorava alla porta e decideva le sorti delle file chilometriche antistanti il locale, già contraddistinta da quel piglio ironico e sagace che l’avrebbe resa, di lì a poco, regina della nightlife capitolina.

Avendo occhio per la gente e orecchio per le giovani leve, per merito di conoscenze incrociate Luxuria a un certo punto entra in contatto con una nuova promessa, da subito arruolata fra le milizie del club: Emanuele Inglese, ragazzetto entusiasta che ancora non sa che verrà incoronato ottavo re di Roma, il re della notte. Inglese muove i primi passi in consolle durante party pomeridiani e all’Alibi di Testaccio, entrando in contatto con la scena LGBTQ e quindi proprio con Luxuria, alla quale consegna una cassetta coi suoi mix registrati. Il rapporto professionale tra i due diventa molto stretto ed Emanuele segue la sua musa anche dopo la conclusione della sua esperienza al Mucca, tuffandosi nel nuovo concept di cui sarebbe diventato resident, anch’esso improntato su malizia e turpitudine: nasce Scandalo, fortemente aiutato dalla collaborazione con Fabrizio De Meis (oggi manager del fu Cocoricò), che lo avrebbe ospitato in uno spazio gigantesco, il PalaCisalfa (oggi Atlantico Live). Dall’Alpheus e il Qube, celeberrime venue romane underground, tempio di party omo-bi-transessuali, la crew si sposta in un vero palazzetto: i presenti si contano a migliaia e il successo cresce velocemente.

Ma Scandalo, proprio a causa delle sue grandi proporzioni, ha vita breve e si conclude dopo una stagione. Ai suoi agitatori mancava la dimensione del club, uno spazio in cui si rischiasse meno e si potesse sperimentare di più. È così che nasce Diabolika. Nessuno, dai suoi storici DJ (Emanuele Inglese, D-Lewis, Emix, Paolo Bolognesi) agli organizzatori, avrebbe potuto prevedere la rivoluzione che ne sarebbe derivata: il Diabolika è conosciuto da tutti, è sulla bocca di tutti. Roma è il centro, ma tentacolarmente contagia Catania, Milano, il Matrix di Brescia, il Plaza di Teramo, la Mecca che è il Cocco a Riccione.

È per voi, è con voi, è dentro di voi!
Nelle celebrazioni religiose afroamericane, un pastore guida i fedeli ad incarnare spirito e parola, a dimenarsi lasciandosi invadere da una forza più grande, superiore. Al Diabolika la messa è pagana, infuocata, posseduta da demoni profani che incitano alla frenesia. Un girone dantesco, entrato nei libri di storia come fenomeno di culto, massa e adorazione. I Caronte che traghettano le anime perdute da una sponda all’altra della notte sono due: Lou Bellucci e Henry Pass.

Parliamo di tempi più spontanei e genuini, spudoratamente coatti, in cui il vocalist armato di microfono era eletto a profeta. Inventava i tormentoni ripetuti come un mantra dalla sala intera, durante un siparietto introduttivo in costume studiato ad arte, come quella del Varietà. Perché per quanto selvaggio l’Indecent Party potesse apparire (e concretamente fosse), nessun dettaglio era lasciato al caso: a partire dal concept di base, l’idea di creare un’alcova perversa e peccatrice in cui tutto sarebbe stato concesso. Grazie a un tema, un’atmosfera e un titolo (Diabolika, potente come un brand) decisi deliberatamente e con intelligenza, la semplice festa in discoteca si sarebbe trasformata in un format collaudato. Prima l’ingresso di ballerine e performer; poi, a luci ancora basse, il risuonare della sigla mefistofelica; dunque, il trionfale arrivo delle regine en travesti, che mettono in scena tra il clamore generale scenette scritte e pensate nel dettaglio. Battute ammiccanti, oscenità e l’immancabile invocazione dei DJ scandita a tempo, coi bassi che esplodono dalle casse.

È uno stile innovativo e unico nel proprio genere, e detterà il filo conduttore musicale che avrebbe dominato un intero decennio degli anni Duemila (con Mauro Picotto, Dj Ralf, Alex Neri, Satoshi Tomiie, David Morales), creando un universo parallelo con un suo codice d’abbigliamento (le perle al collo, gli occhiali Carrera, le ragazze con i ciucci in bocca e le calze a rete come maniche agli avambracci) e un suo riconoscimento, potendo contare sull’infinita adorazione dei propri appassionati. Più di un party: una collettività, agli antipodi di molte esperienze di clubbing moderne più improntate sull’individualismo e sull’immersione del singolo nell’evento e nei suoni che su un senso di squadra e aggregazione.

A Roma “ar Diabolika” ci andavano i bori, ma che grande cuore batteva sotto le loro magliette aderenti—forse anche per merito di combo mondiali di pasticche. Il Diabolika è senza pari, essendo magnificamente riuscito a partorire un trend seguito da una cerchia vastissima, antropologicamente riunita a cantare “Scariche Cosmiche” o “The Drill” come se fosse l’inno nazionale. Un termine di paragone potrebbe forse essere il ruolo che il vecchio Plastic ha giocato per la città di Milano e la comunità LGBTQ, per la sua oltraggiosa indifferenza ai canoni di omologazione e ai limiti di decenza. O, ancora a Milano, al Pervert o P-Gold, capitanato da Obi Baby e Cristian Cafarelli nella venue del Rolling Stone (in cui si è consumata anche una leggendaria notte del Diabolika da cinquemila persone), più o meno contemporaneo alla realtà della Capitale e simile nelle grafiche, sigla, coreografie e indefinita sessualità.

Il Diabolika non era solo una club night, ma un’esperienza. Chiunque avrebbe donato un organo pur di assistere a questo spettacolo: basti pensare alla diffusione di cui ha goduto in Italia, incrementandone l’eco, dal momento in cui il party si è legato all’emittente radiofonica M2O, trasmettendo in diretta e versione integrale le serate del sabato da mezzanotte alle cinque all’NRG. Prima ancora che la Boiler Room venisse inventata, era Emanuele Inglese il dio da ascoltare per ore dalla propria cameretta in provincia.

La crescita è stata esponenziale, dalla vittoria locale ascendendo alla piramide del Cocoricò a quella internazionale muovendosi allo Space di Ibiza. Cosa chiedere di più se non una moltiplicazione dei pani e dei pesci, partiti da duemila ospiti paganti (numero già spaventoso) sino a contarne diecimila. La parabola non accennava ad entrare in fase calante, ma pur battendo cassa ed espandendosi, diatribe interne avvelenavano l’umore di quella che sino ad allora era stata una famiglia. Galeotta è stata, sicuramente, l’irremovibilità di Inglese davanti ad alcune condizioni contrattuali richieste e negategli, rispetto alle quali ha piuttosto preferito abbandonare la nave, seppur carica di meraviglie. L’anima del party andava via e non avrebbe mai più rimesso piede in quella che era casa sua, neppure nelle reunion successive organizzate a distanza di anni. Sostituito da Simone LP, giovane romano classe ‘81 formatosi fra le notti del Piper in via Tagliamento, l’inconfondibile sound house non veniva tradito, ma qualcosa si era rotto per sempre.

Venuto a mancare Lou Bellucci nel 2017 per un tragico arresto cardiaco, un’altra vertebra della spina dorsale del Diabolika andava persa: amatissima, una delle due voci narranti era scomparsa per sempre. Negli anni successivi, il ricordo delle sue danze scatenate e della sua verve piena di ironia non è mai morto. La sua morte avvenne tragicamente poco prima che tutto il gruppo originale venisse riunito per partecipare alle riprese di un documentario, Generazione Diabolika, scritto e diretto da Silvio Laccetti. Presentato a tappe in Italia in un tour amarcord per nostalgici e curiosi, il film è emozionante per chi il Diabolika lo ha vissuto e adrenalinico per chi non ha avuto la fortuna di abitare in una delle metropoli visitate dal party, ma del Diabolika ha sentito parlare sin dai banchi di scuola, coi dischi di Bolognesi pompati a palla nelle radio delle Ligier parcheggiate in cortile.

Diabolika gode oggi di una rivalutazione quasi analitica, intellettuale, come già è stato per i dischi degli 883 riletti in chiave indie dall’intellighenzia musicale italiana qualche anno fa. Allo stesso modo, chi ha vissuto alla fine dei Novanta e l’inizio dei Duemila lo sconfinato successo di questi pezzi di storia pop nazionale è cresciuto e passato oltre senza mai dimenticarli davvero. I gusti cambiano, evolvono, e magari a queste passioni si è guardato con snobismo perché troppo commerciali, quasi da nascondere. Ma rimangono epifanie adolescenziali che toccano le corde del cuore. Meglio si comprende il loro significato, meglio si realizza quanto abbiano rappresentato a livello individuale e se ne apprezza la qualità a distanza di tempo.

Alla proiezione di Milano, attorno a me, a fine film la platea si è alzata in piedi applaudendo Henry Pass, presente in sala al massimo splendore, e intonando “Scariche Cosmiche” in un coro da stadio. Un pubblico variegato fra camicie bianche di insospettabili fan ora prestati al mondo dell’azienda e aficionados sfegatati che applaudono e asciugano qualche lacrima di commozione.

Chi andava al Diabolika ha compiuto o sta per compiere trent’anni e la nostalgia dei tempi andati è lì che attende dietro l’angolo. Rivedere quello che è stato è bellissimo, perché ci ricorda che di certo eravamo tamarri, ma anche sfacciatamente felici.

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