“Fedele è il Signore in tutte le sue parole e buono in tutte le sue opere. Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto. Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa e tu dai loro il cibo a tempo opportuno. Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente” (Sal 145, 13b-16). Con le parole di questo Salmo iniziamo a comprendere il tempo di Avvento, il quale a sua volta ci accompagna al mistero del Natale e all’attesa di Cristo che in esso viviamo.
Anzitutto, faccio notare che non ho scelto un brano in cui si dice del Signore che sta per venire, come invece si potrebbe fare per intenderci sul periodo che prepara il Natale. Ho invece optato per queste parole perché l’avvento, l’attesa del Signore, ha il suo fondamento e la sua speranza nella fedeltà del Signore. Infatti, sarebbe vano attendere chi si crede che non verrà; il Signore al contrario “è fedele” e la sua fedeltà provoca la nostra certezza di poterlo incontrare. Il termine “avvento” deriva dal latino “adventus” (affine al greco “parousia” o “epipháneia”) che nel linguaggio latino pagano significa la venuta della divinità nel tempio. I pagani credevano infatti che una volta l’anno la divinità scendesse nel tempio a lei dedicato per incontrare gli uomini. In seguito passò ad indicare l’anniversario dell’ascesa imperiale di Costantino, come testimonia il Cronografo Romano del 354; per questo in esso si commemora questa data con il titolo di Adventus Divi; in tal senso possiamo tradurre avvento con il significato di avvenimento. Mentre nel linguaggio religioso iniziò ad assumere il significato di venuta del Figlio di Dio nel periodo a cavallo tra III e IV secolo. In seguito i libri liturgici della Chiesa (i Sacramentari in particolare) iniziarono a indicare con questo termine due realtà collegate tra loro: la venuta nella carne del Figlio di Dio (il mistero dell’Incarnazione celebrato a Natale) e la sua venuta finale definitiva. Il carattere comune a tutti questi sensi è che dunque si vive una attesa. Tale attesa è anche lieta e l’elemento della letizia si percepisce dai testi della liturgia che accompagnano questo tempo. Nel periodo tra VII e VIII secolo il Natale è già in tutti i calendari e segna l’inizio dell’anno liturgico, mentre un secolo più tardi, tra VIII e IX, tale inizio è dato dal tempo di avvento e quindi da un periodo di preparazione. Nei secoli le evoluzioni che hanno portato alla nascita di questo periodo sono state poche, ma significative.
Anzitutto in Gallia ritroviamo S. Ilario di Poitiers che istituisce tre settimane preparatorie all’Epifania (IV sec.) e il canone 4 del Concilio di Zaragoza (380) invita alla partecipazione alle tre settimane. Nel VI sec. Gregorio di Tours idea un periodo di ascesi e preparazione simile alla Quaresima (come scritto altrove essa già esisteva) e su questa scia si muovono molte iniziative che in più parti del continente europeo concorrono alla nascita dell’Avvento. Da ultimo arriviamo a Roma. Qui pare che vi convivessero due forme differenti. Una più primitiva si rifarebbe a Papa Gelasio I e consterebbe di sei settimane, mentre la più tardiva, quella legata a Gregorio Magno, ne conta solo quattro. Nei secoli XII-XIII la questione è superata poiché si impone quella di quattro settimane, come oggi. L’Avvento assume la caratteristica di essere non solo tempo di preparazione al Natale e dunque alla commemorazione di Cristo che viene nella carne. Esso è anche simbolo e richiamo dell’attesa della sua venuta finale e definitiva, come anticipavamo all’inizio. Esso celebra dunque l’incarnazione del Figlio di Dio e in virtù di questa attende il compimento dei tempi quando “Dio sarà tutto in tutti” (Cor 15,28). Il tempo dell’Avvento è un tempo carico di grandissima speranza. Riempirebbero il cuore i testi liturgici e biblici di questo periodo che non sarebbe possibile pensare parole più adatte ad esprimere il mistero. Ad esempio, ascolteremo in questa prima domenica il popolo di Israele dire a Dio: “Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? … Se tu squarciassi i cieli e scendessi! … Ma tu, Signore sei nostro padre; noi siamo argilla e tu sei colui che ci plasma” (Isaia 63). Con queste parole il popolo di Israele riconosce la paternità di Dio e si rivolge a Lui in questi termini perché ha scoperto che solo in Lui c’è pace e sicurezza e che la risposta alle domande del cuore è solo in Lui.
Dio è atteso dal cuore, anche quando questo non sa bene che è Dio che si sta attendendo; Egli, creando l’uomo, l’ha fatto ad immagine della propria natura e questo ha messo nel suo cuore come una “nostalgia” di Dio. Così riconosce nella sofferenza che Dio gli è padre e che in virtù della sua fedeltà all’amore di padre, non mancherà di soccorrere chi gli grida aiuto. Ogni essere umano in sé è abitato dalla speranza, anzi potremmo dire che è costituito di essa. Egli spera per sé una vita in grande e spesso vaga di appagamento in appagamento fino a che non riconosce la fonte vera della sua felicità. S. Agostino e S. Teresa Benedetta della Croce (ne abbiamo parlato il 9 agosto), in virtù della loro testimonianza di vita, sono maestri nel raccontarci la fatica della ricerca di Dio.La speranza dell’Avvento ci sveglia dal torpore quotidiano, a scanso di chi crede che l’attesa di Dio e del suo Regno sia questione di passività. Esso infatti ci dice che l’attesa del Signore deve essere operosa. Così si esprime S. Paolo nella lettera a Tito: “Viviamo con sobrietà, giustizia e pietà, aspettando la beata speranza e la manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Signore Gesù Cristo… per riscattarci… e formarsi un popolo puro… zelante nelle opere buone” (Tt 2,12-14). È certo dunque che Dio viene per formarsi un popolo di sua proprietà, ma si aspetta che esso sia attivo nelle sua buona volontà: l’attesa non può essere passiva. Un altro carattere di questa attesa è che si attende una persona viva, come anche il mistero della Pasqua ci ha fatto meditare. Con l’Avvento inoltre ci viene ricordato che siamo un popolo peregrinante verso il Regno di Dio e con a capo il Figlio di Dio, Cristo Gesù, il quale si è fatto uomo, è morto ed è risorto per noi. Con la sua venuta Egli ha impresso il sigillo alle pratiche di allontanamento di ciò che deturpa l’uomo poiché rivelando Dio all’uomo, ha rivelato l’uomo a se stesso. Da qui la nostra speranza: essa è impegno di liberazione da ciò che deturpa l’umano. E citando Moltmann aggiungerei che “l’attesa fa bella la vita perché in essa l’uomo può accettare tutto il suo presente e aver gioia non solo nei momenti di gioia, ma anche nei momenti di dolore, e trovare felicità non solo nella felicità, ma anche nella sofferenza” (da “Teologia della speranza”).
La speranza dell’Avvento ha allora un fondamento concreto nell’azione di Dio per noi? Una domanda del genere è legittima e troverà risposta al termine del cammino dell’Avvento. Il mistero del Natale ci ricorderà infatti che il nostro tempo è un tempo “redento” e chi lo ha reso tale è stato Dio in persona. Esso non è un tempo ripetitivo e desolato come credevano gli antichi greci o di dolore e tristezza come profetizzano ancora certi annunciatori di sventura. Esso è un tempo che è diventato “di salvezza” poiché un solo evento è bastato a farlo rendere abitato dalla grazia di Dio: l’Incarnazione del Figlio suo. Dio incarnandosi è entrato a pieno titolo nel fluire del tempo e della storia e ha reso la storia umana una storia salvifica la cui meta è la reale comunione con Lui. Per questo motivo i due significati di “adventus” che troviamo nei Sacramentari del III e IV secolo non sono in opposizione tra loro: Cristo, che è venuto una volta incarnandosi, tornerà ancora per aprire definitivamente le porte del Regno di Dio.
Con questa consapevolezza, anche noi possiamo ripetere nel cuore una delle orazioni della Messa di oggi che recita: “O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché Egli ci chiami accanto a Sé nella gloria a possedere il Regno dei Cieli”.