Avete presente la pluricitata scena in cui Fantozzi commenta con un giudizio tranchant il film de “La corazzata Potemkin” scatenando novantadue minuti di applausi e una rivoluzione aziendale?
Si parva licet componere magnis, questo breve ma denso libretto di Walter Siti (Rizzoli, 264 pagine) potrebbe (dovrebbe?) avere la stessa funzione catartica e identico effetto liberatorio, innescate da un sottotitolo che presenta l’opera come “riflessioni sul Bene in letteratura”, ove la maiuscola di Bene è già indicativa del tema e richiama una altrettanto illuminante riflessione presente nell’interno della copertina di “Ortodossia”, il primo disco degli iconosclastici CCCP-Fedeli alla linea, in cui si affermava – parlando del Muro di Berlino e di ciò rappresentava – che “Di qua il bene, discutibile, però bene. Di là il male, non discutibile, perché male”.
Tra necessità dello stile e opportunità della forma
Riducendo il tutto ai minimi termini e semplificando all’eccesso (operazione che peraltro Siti deplora esplicitamente), si potrebbe dire che Siti rivendica alla letteratura la necessità dello stile e l’opportunità della forma, respingendo allo stesso modo la tentazione che la vorrebbe strumento di educazione ed elevazione morale.
In altre e semplici parole, Walter Siti confuta l’idea che la letteratura debba necessariamente promuovere il bene, guarire le persone e riparare le storture del mondo, piuttosto rivendica – se non il diritto, quantomeno la possibilità – che il lettore riceva un panorama completo, complesso e senza pregiudizi, tale percui si possa provare simpatia per Anna Karenina o ammettere la propria fascinazione verso Hannibal Lecter.
Poiché – per dirla con il Siddartha di Hesse – di ogni verità è vero anche il suo contrario, la letteratura dovrebbe svelarci anche i cliché buonisti che quasi per osmosi sono stati trasmessi subliminalmente: il razzismo di Robinson Crusoe o quello del bonario zio Tom della omonima capanna – giusto per citare due esempi tra i più noti – non devono certo cedere il passo alla ipocrita e manichea furia iconoclasta della “cancel culture” ma piuttosto mostrarci coi fatti quanto ciò che ieri era buono oggi lo è un po’ meno, senza che questo incida sulla valutazione artistica dell’opera.
Insomma, per Siti “la letteratura non può prestarsi a fare da altoparlante a che già si crede giusto”, ammonimento rivolto in primis agli scrittori che “nell’ansia di andare oltre la letteratura finiscano per non sfruttarne a pieno le potenzialità”.
O tempora, o mores
Viviamo in tempi complessi, in cui imbonitori televisivi come Barbara D’Urso o Alfonso Signorini distribuiscono patenti di correttezza e lasciapassare di moralità (condizione a cui Siti dedica alcune argute analisi) e seri studiosi come Alessandro Barbero son lapidati da farisei che nella maggior parte di loro non hanno neppure letto – altro che compreso – quanto affermato dallo storico piemontese.
Questo spiega non tanto il potere delle parole quanto il rischio nel non saperle leggere per quello che sono volendogli attribuire altro di diverso dal tempo e dal luogo dove furono scritte, come acutamente esemplifica Siti nella introduzione, quando rileva la misoginia insita nel canto leopardiano dedicato ad Aspasia.
Se “Contro l’impegno” è un provvidenziale ammonimento per gli scrittori, altrettanto provvidenziale è per il lettore, il cui compito e ruolo viene analizzato a partire dalla figura del “lettore implicito” a cui ogni scrittore – più o meno coscientemente – si rivolge.
Se è vero che il sottaciuto disclaimer di ogni opera letteraria potrebbe essere “sono responsabile di ciò che ho scritto, non di ciò che hai letto”, è altrettanto vero che – come Siti evidenzia in più parti – che attraverso l’opera letteraria possiamo cogliere aspetti del carattere e della psicologia dell’autore di cui egli stesso è inconsapevole ed involontario svelatore.
Ma ciò che Siti sembra ripetere più spesso è che ad un’opera letteraria si chiede di essere bella, ben fatta, appassionante da leggere e coinvolgente da seguire nel dipanarsi della trama, senza altro compito che raccontare una storia. Sembra poco ma è tanto, in epoca di comunicazione mordi e fuggi, in cui – pur consapevoli che morettianamente “le parole sono importanti” – ci si affida sempre di più a immagini autoesplicative, a frasi brevi fatte a slogan, a ragionamenti di basso cabotaggio e brevissimo respiro e sorge allora imprescindibile la necessità “di saperle ascoltare (proprio le parole, non le idee), farsi vuoti e disposti a lasciarsi guidare dal loro misterioso aggregarsi; purché la ragione, prima d’essere vinta, si dibatta come un pesce tirato in secca”.
Tra scrittori e lettori
Molti pregi ha “Contro l’impegno”, tra gli altri quello di richiedere la necessità di avere un buon dizionario a portata di mano, che termini come “irenico”, “lutulento” e “anafora” non sono per tutti e di tutti i giorni, dimostrando che anche un saggio critico può insegnare molto senza condannare nessuno e senza allo stesso tempo negarsi di offrire la propria schietta opinione su scrittori più o meno à la page come – due per tutti – Saviano e Carofiglio, ribadendo – ad esempio – che “difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti”.
Walter Siti ama la letteratura, che è per lui “un modo di conoscere la realtà non surrogabile da altri tipi di conoscenza” tanto che “se sparisse dal mondo sarebbe come dover fare senza la chimica, o la storia”.
Interessante anche il confronto con il giornalismo, affiancato dall’analisi tra giornalisti-scrittori e scrittori-giornalisti: per Siti “Vero e Bello né coincidono né si oppongono: stanno su piani logici inconfrontabili” e se ne deduce che “il Bello non ha a che fare col Vero, e nemmeno col Bene” e quindi “la letteratura può dare cittadinanza a Satana, mentre il giornalismo non può permetterselo”.
Tra forma e sostanza
Siti dialoga con i lettori e con se stesso e ragiona su spirali che allargano il discorso e lo riconducono al punto, giungendo a conclusioni originali e illuminanti, come quando afferma che “il vero bene che la letteratura può fare agli uomini sia di inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa”, richiamando in chi scrive la premessa de “L’anticristo” di Nietszche, dove l’autore afferma che “Questo libro appartiene a pochissime persone. Forse nessuna di esse esiste ancora. […] come potrei confondermi con coloro ai quali viene oggi prestato ascolto? Solo il dopodomani mi appartiene. C’è chi nasce postumo. […] Solo costoro sono i miei lettori, i miei veri lettori, i miei lettori predestinati: che importanza ha il resto? Il resto è soltanto l’umanità. Si deve essere superiori all’umanità. Si deve essere superiori all’umanità per forza, per altezza d’animo, per disprezzo… “ in un afflato di consapevolezza che è complementare e non opposto a ciò che Siti auspica.
La riflessione di Siti non fa sconti a nessuno, e ciascuno per la sua parte può e deve trovare motivi di riflessione, il lettore per interrogarsi sul “perché legge cosa” e lo scrittore per rispondere al dubbio che “la letteratura sia una merce e quel che interessa agli scrittori sia soltanto ricevere la qualifica di produttori”, un quesito che ancora più esplicitamente si esprime nell’alternativa: “come se si scrivesse per essere chiamati scrittori e non per la passione di esporsi a un trauma”.
Tertium non datur (?).
“Da un po’ di tempo si è diffusa l’idea che la letteratura debba promuovere il bene, guarire le persone e riparare il mondo. Breviari e “farmacie letterarie” promettono di confortarci e di insegnarci a vivere, i romanzi raccontano storie impegnate a fare giustizia, confermando chi scrive (e chi legge) nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta. Ma la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato: più si tenta di piegarla al proprio volere, e usarla per “veicolare un messaggio”, più lei ci sfugge e porta in superficie ciò che nemmeno l’autore sapeva di sapere. Sostiene il Bene se il Potere lo reprime, ma quando il Potere si nasconde dietro stereo-tipi di buona volontà lei non ha paura di far parlare il Male, di affermare una cosa e contemporaneamente negarla, di mostrarci colpevoli innocenti e innocenti colpevoli. In questo pamphlet militante e preoccupato Walter Siti analizza alcuni autori e testi contemporanei di successo per difendere la letteratura dal rischio di abdicare a ciò che la rende più preziosa: il dubbio, l’ambivalenza, la contraddizione. Non senza il sospetto che l’impegno “positivo” sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda e ignota, in cui tecnologia e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri.”
(Dalla seconda di copertina)