Gli Orienti sono un orizzonte. Osservo le parole che corrono come vento tra le nuvole. Vorrei recitare il Canto della Misericordia, ma gli incontri hanno sempre il gioco della sensualità. Come le partenze. Tutto finisce per ricominciare.
Ho creduto ai grandi amori. Ma sono soltanto storie che hanno il loro fascino nel tempo fermo e quando il tempo raccoglie i voli delle ombre il silenzio vince. La vittoria del silenzio è la sconfitta del vivere dentro l’uno nell’altra l’una nell’altro.
Tutto ha un senso. Anche quando ho ritrovato la pietra abbandonata tra le dune del deserto ho scavato nel vento di questi amori che si credevano immensi. Di questo amore che credevo immenso.
Dove sei? A quest’ora tarda? Ti ho lasciata con il velo sul capo e sul viso all’ingresso della Medina. Avevi nello sguardo l’assenza ed io portavo negli occhi la dimenticanza. Sono ritornato a Roma e tu sei rimasta a Tunisi.
La mia vita è un percorrere gli amori e le dimenticanze. Bisogna vivere le dimenticanze per non lasciarsi aggredire dal disamore.
Ho riflettuto tanto sulle tue parole di quella sera. Non mi lasciano in pace. Non mi danno pace. Non si pronunciano parole ferite se non si portano nel cuore. Ciò che si pronuncia è un groviglio di sentieri che agitano l’anima. Poi esplodono come colpi di mitraglia nella trincea della vita e tra i confini dell’esistenza.
Tutto però ha un senso.
Non ho rimpianti. Neppure nostalgie. Io non credo al perdono. Credo alla dimenticanza. Si perdona quando si dimentica. Quando si dimentica non c’è più bisogno di perdono perché il ricordo, trasformatosi in memoria, non c’è più. C’è soltanto l’assenza. Il distacco. Appunto, il silenzio.
Osservo la luna che diventa un fascio circolare di colori sul mare.
Dove sei a quest’ora tarda?
Non ti cercherò. Ma a quest’ora i dervisci danzano e i loro occhi ascoltano il cielo, la luna, la stella. Anche di notte i gabbiani sfiorano le onde e il mare è soltanto un’onda che accompagna le dimenticanze.
Ti ho lasciato scritto su un ritaglio di giornale questo appunto: “Quando le parole non parlano e gli sguardi nascondono l’assenza la fine ha il suo inizio. È qui che il territorio delle storie vive i silenzi”.
Sono partito.
Impagino e spagino i miei giorni in anni diversi, come tu mi hai detto, di una nuova stagione. Già, è proprio finita… Ma cosa?
Le parole, a volte, nascondono ciò che si porta dentro. Nascondere però non è avere segreti. È fingere e sino a che punto la finzione potrà reggere?
Abbiamo fatto l’amore anche dopo ma il tempio dell’infinito si è spezzato.
Non ci sono gli amori infiniti. Quando si ama la passione ci rende infiniti. Quando non si ama più la sensualità e la passione hanno il destino del limite.
Ci si perde tra i grovigli del finito e la tentazione dell’illimite. Ma tu non sei destino. Sei storia.
Diventa sempre più difficile continuare a scrivere. Uno scrittore non racconta la cronaca. Scava le proprie frontiere.
Cosa è l’infinito? Porta con te il mio silenzio. Il mio silenzio ti parlerà. Quando le parole incontreranno il silenzio le sette porte si chiuderanno. Quando il silenzio incontrerà le parole la luce delle sette stanze illuminerà il castello.
Sono entrato nel labirinto che mi ha tracciato Santa Teresa d’Avila. Ma ho già detto. Il misticismo è il viaggio che fa vedere oltre e il nostro incontro è un intreccio di mistero, il cui camminamento ha le rughe del segreto. Ma tu sei rimasta ad ascoltare il Canto del Muezzin con i cinque appuntamenti delle voci che sembrano giungere dalle lontananze del cerchio magico.
Io qui a Roma osservo le foglie cadere. Il Tevere è sporco di fango e di simboli. Non ho più pensieri. Quando il vuoto domina si diventa indifferenti. L’indifferenza è il nulla che lacera ma ci chiama a rispondere ad ogni gesto dato ad ogni gesto ricevuto.
Non ritornerò in quell’Oriente. Ho bisogno di fermare ogni partenza e di vivere il viaggio con l’età che ha la polvere del tempo e la terra degli anni. Forse un giorno scriverò oltre le ombre e ogni tassello si ricomporrà nel mosaico perduto.
Qualcuno dirà…
C’era una volta un uomo che volle cercare gli orizzonti degli Orienti e incontrò una donna che volle abitare l’Oriente. Forse si abitarono per amarsi. O forse vissero la magia dell’incontro come attrazione del possedersi… ma si sono persi cercandosi, incontrandosi, dandosi appuntamento e attraversando le alchimie del deserto e la profezia del mare…
Un magico intreccio di storia e destino… Per lei tutto restò destino e mistero e per lui la storia si fece destino e realtà. Poi lui ritornò nel vento dell’Occidente e lei non smise di pregare inginocchiata sui tappeti della Moschea nella Medina del suo cuore.
Fu così che il vento portò echi di sabbia e gocce di sale sulle mani e tra i capelli. Il tempo passò. Rimase la memoria. La memoria non racconta. Annota un diario di vissuti.
Mi sono trovato tra le mani una pietra. La pietra d’Oriente che specchia il tempo della profezia nelle stagioni della pioggia. Inciso nella pietra il tuo sorriso, le tue labbra, i tuoi occhi. Se accosto la pietra agli orecchi odo il suono dei sufi che hanno il contemplante viaggio della pazienza.
Con il tempo ho capito che la pazienza ha la magia della solitudine e nella solitudine vivo la cerca del sublime.
So dove sei. So che non smetti di pregare. So che tra i vicoli della tua città ti conoscono e ti indicano come la donna che porta negli occhi la speranza. Del tuo viso e della tua bellezza soltanto gli occhi sono visibili. Quegli occhi… Hanno la profondità del mistero navigante tra gli amori mai smarriti e gli azzurri che disegnano la luna dell’infinito.
Io non sono più tornato. Ma da qui ascolto la tua magia.
Racchiudi in una mano la rosa del deserto.